“You got a fast car, I got a ticket to anywhere…” Così recitavano i versi di Fast Car, celebre brano del 1988 contenuto nell’altrettanto celebrato album d’esordio della cantautrice americana Tracy Chapman, che raccontava la storia d’amore tra due giovani emarginati sullo sfondo di un’America suburbana, povera, anonima, disperata, eppure animata da una struggente vitalità, un bisogno di calore e di amore che genera un movimento, per quanto falso, e spinge in una direzione, per quanto illusoria (…and I had a feeling I could be someone, be someone, be someone). Una macchina veloce che non porta da nessuna parte nel decennio ricordato per antonomasia come fabbricante di illusioni plastificate e falsi movimenti taroccati, dove i viaggiatori degli anni ’70 si erano tramutati in turisti e i desideri in combustibile economico per l’industria delle saponette.
Cosa è rimasto del fuoco che continuava a covare sotto la ceneri delle vita di quei due ragazzi senza una destinazione ma con la tenace, ostinata, istintiva volontà di trovare un’identità? Sarebbe parziale e ingrato sostenere che quella generazione, confusa e persa nella voragine valoriale seguita al crollo della stagione delle ideologie, si sia trasformata nella deprimente, sconfortante gioventù che racconta Sofia Coppola in questo suo The Bling Ring, anche perché tanto era precisa la cornice in cui la Chapman inquadrava i suoi infelici innamorati, tanto è esatto e puntuale in particolari e dettagli il mondo dei ragazzini ossessionati dalle celebrità al punto da volerne svaligiare le dimore sprofondate in un lusso sempre uguale a se stesso, precisando che stiamo puntando l’obiettivo su uno specifico spaccato di realtà a cui la Coppola, dialetticamente, applica lo specifico del suo sguardo, mantenendo una coerenza stilistica e poetica rispetto alle sue precendenti incursioni nella zona grigia tra giovinezza e maturità, semmai asciugando la tensione al lirismo e accentuando il senso del paradosso.
Anche l’indicazione, nei titoli di testa, che la storia si ispira ad un articolo di Vanity Fair e alle interviste fatte agli autori dei furti contestualizza ancora di più come fatto “realmente accaduto” una vicenda che la cineasta americana, partendo dalla concreta osservazione e ricostruzione, trasfigura nell’astratto e nel simbolico, cercando di filmare lo stato emotivo e psicologico in cui galleggiano i suoi personaggi: il vuoto, la noia, l’assenza.
Eppure i corpi giovani e la facce pulite delle biondissime vergini suicide riempivano vibranti, con i loro sguardi persi in qualche “altrove” più che da “nessuna parte”, le immagini del debutto di Sofia, quel giardino che diventava luogo della memoria, terra di confine tra la vita e la morte, il sogno della bellezza e della gioventù e il brusco disincanto del suo risveglio.E il senso di perdita e smarrimento in cui si perdevano Scarlett Johansson e Bill Murray in Lost in translation si risolveva in un abbraccio così profondo, intimo, toccante che ci veniva proibito anche solo ascoltare le parole sussurrate di quella che poteva essere una fine come un inzio. Persino la vacua, annoiata Maria Antonietta, il personaggio che più si avvicina alle ragazzine del Bling Ring, alla fine era costretta a fare i conti con l’identità passivamente subita di regina , e mostrava un sussulto di tenerezza nel viaggio verso il patibolo, nel tramonto di fronte al reale movimento della Storia.
Con Bling Ring, una parola che, fin dal suono,da un senso di staticità e ripetizione, non c’è più la possibilità di ricavare uno spazio interiore nei personaggi che sembrano completamente colonizzati, occupati, schiacciati nei loro sogni,desideri, aspirazioni dal peso degli oggetti che riempiono spazi esterni altrettanto vuoti e ridotti a paesaggi urbani defraudati della loro identità geografica, riverniciati sotto la patina di enormi ville stilizzate, a loro volta contenitori di identità costruite attraverso le immagini riprodotte e riportate dai nuovi media, dove la velocità e la facilità con cui è possibile acquisire informazioni private come l’indirizzo di casa delle star da svaligiare, trasforma tutto in un enorme non luogo virtuale,la scena riflessa del surrogato della vita di carne e di sangue che rimane,quella sì, altrove.
Tokyo per i protagonisti di Lost in Transalation e Versailles per Marie Antoniette possedevano ancora la valenza simbolica di un stato d’animo o una condizione esistenziale, mentre i non luoghi di Bling Ring sono i come degli enormi, statici cartelloni pubblicitari in cui è possibile attacare figure bidimensionali che si offrono all’occhio ma non allo sguardo.
Esistono in quanto funzioni di un mondo di segni svuotati di significato, ridotti a grado zero della rappresentazione, che non hanno una loro identità ma non si preoccupano neanche di averla.
Tutto ciò che li riguarda e li interessa ruota intorno a loro oppure fuori da loro e l’unica azione che compiono è quella di allungare la mano e prendere , anche se scendendo ad un gradino ancora più basso della rappresentazione, la Coppola non trasmette neanche il senso del possesso, non c’è nessuna relazione tra soggetto e oggetto, il “Voglio”, verbo usato più volte dai protagonisti e rivolto alle cose dei loro effimeri beniamini, è svuotato dal contatto profondo con desideri e necessità.
Sembra un po’ di vedere la famosa sequenza finale di Zabriskie Point,ma in rewind : questa volta tutti gli oggetti simbolo del consumismo, all’epoca nemesi di una guerriglia ideologica e culturale,oggi completamente assimilato dall’ingordigia di compensazione del vuoto, invece di saltare per aria, si ricompongo perché ad essere frammenta, schizzata e dissociata è la percezione interiore contro una superficie liscia e splendente.Non c’è reato, colpa, vergogna o senso del limite, si procede per accumulo e più scorrono le immagini di sfilate di scarpe,gioielli e vestiti, più abbiamo la sensazione di smarrire il nostro sguardo, persi nella traduzione di un mondo di cui non solo non conosciamo i codici d’accesso,ma a cui non riconosciamo neanche una parvenza di umanità, il fremito dell’indecisione e della titubanza che spesso accompagna i gesti dell’adolescenza.
In particolare i due principali artefici del piano del bling ring,Marc e Rebecca, si incontrano in un presto liquidato cliché da film di Gus Van Sant,capitati in un liceo per ragazzi problematici, forse per qualche vuoto d’amore e d’attenzione da parte dei genitori o per una precoce tedenza autodistruttiva,ma un possibile cotè problematico viene immediatamente abbandonato.
Semplicemente non si raccontano e non vengono raccontati, si arriva subito al punto,l’atto del furto reiterato e ossessivo come riempitivo di un canale comunicativo- l’amicizia tra Marc e Rebecca fondata su una complicità di apparenza e non su una conoscenza di sostanza-e tutto è condiviso in presa diretta sulle community dei social network, i più emblematici dei non luoghi, irrapresentabili e quindi non trasfigurabili ,dentro cui la distanza dalle celebrities da emulare e derubare è ulteriormente ridotta dal numero dei caratteri di un tweet o da una foto da postare.
La corpor
eità svanisce, sfuma nelle ombre delle immagini riprese dalle telecamere a infrarossi di sistemi di sicurezza che non servono a proteggere o a tutelare privacy continuamente violate dalla pulsione scopica, ma aggiungono la riproduzione e la diffusione di ulteriori immagini inghiottite in un buio senza identità.
In realtà, espressione quanto mai fuorviante applicata a questo straniante, sospeso oggetto filmico, guardando non storditi dai fumi dell’effimero e del superfluo e non condizionati dal pericolo di un atteggiamento moralistico a cui l’asettico sguardo della Coppola non concede argomentazioni, è possibile cogliere uno spiraglio di verità nel vuoto e nel vacuo: un momento che appartiene all’unico personaggio maschile del gruppo, unico nel suggerire l’inquietudine di un’identità sessuale non definìta, unico a ricercare affetto e tenerezza dall’amicizia con Rebecca fuori dalle maschere del gioco del Bling Ring e anche unico a versare lacrime autentiche e un reale senso di dolore e paura, il barlume del legame che c’è tra un’azione e la sua conseguenza sul piano individuale e sociale al momento dell’arresto.L’unico che la Coppola inquadra in marcia in fila con gli altri detenuti e a cui dedica un close up pieno di quella stessa idolente assenza patita dalle protagoniste dei suoi film precedenti.
Tutto poi torna nel tempo di un click, nello sguardo vuoto e abbagliato dai flash dei fotografi di Nicki , la più iconica e superficiale del gruppo, così aderente alla superficie da trasformare l’esperienza del Bing Ring in un brand, un marchio riconoscibile attraverso il quale diffondersi su un sito internet, perché si continua a esistere come immagine proiettata che non ha storia ma solo visibilità.
Parlavamo del gusto del paradosso della Coppola: forse non si è mai espresso con maggiore acume come nel controcanto delle immagini di repertorio di una celebrity molto poco virtuale, fatta di carne, sangue e patimento, quella Lindsday Lohan che non lascia la sua casa vuota a portata di furto per recarsi a qualche festa o inaugurazione, ma per dirigersi nello stesso carcere, pesta nel viso adolescenziale precocemente appesantito dall’abuso di alcol e droghe, dove dividerà la cella con la ladra dei suoi oggetti .Sono proprio questo corpo e questo volto celebri, su cui si posano i segni del tempo e di una realtà senza sconti e senza compiacimenti, ad essere i catalizzatori di un sentimento di compassione e di pietà per una gioventù non più ribelle senza una causa eppure bruciata dal fuoco di un’irrequietezza che lascia addosso un disagio a cui non vorremmo dare spiegazioni sociologiche,ma solo una carezza di conforto.