Olanda 1944: Rachel Stein è una giovane cantante ebrea fuggita dalla Germania nazista che, persa l’intera famiglia durante un agguato nazista, si unisce alla Resistenza olandese cambiando identità e diventando Ellis De Vries. Insieme a Hans Akkermans, un medico della Resistenza, partecipa ad alcune operazioni partigiane sfruttando la sua bellezza e la sua seduzione. Arriverà a infiltrarsi così nei salotti del potere nazista tentando di sedurre l’ufficiale Münze, del quale poi si innamorerà. Cercherà comunque di portare a termine la sua missione. Alla fine, però, qualcosa va storto: una notte, in un’imboscata, vengono uccisi numerosi combattenti della Resistenza e lei è accusata di alto tradimento.
Questa in sostanza la trama dell’ultimo film dell’olandese Paul Verhoeven tornato in patria dopo anni di Hollywood per raccontare una storia che gli ha valso l’accusa di revisionismo, mentre invece centra completamente un’idea tutt’altro che banale: quella che non c’è una cesura definitiva tra il nero e il bianco, che esiste quella zona grigia alla quale apparteniamo tutti e nella quale possiamo sconfinare. Nel film nessuna cosa è come sembra perché ogni persona può essere tutto e il contrario di tutto. Rachel per prima (non a caso è una donna di spettacolo) è una figura ambigua: fa il doppio gioco negli ambienti della Gestapo, maschera il proprio dolore, finge nei confronti di Münze un innamoramento che, probabilmente, nasconde a se stessa. La stessa cosa vale anche per il medico Hans Akkermans, per il notaio che aiutava gli ebrei a procurarsi il denaro per fuggire all’estero e per l’ufficiale e “gentiluomo”, l’SS Münze, il quale, ormai stanco di una guerra che ormai sa essere agli sgoccioli, tenta di negoziare con i partigiani della Resistenza. Tutti i personaggi appartengono a quella “zona grigia” per cui a ogni loro gesto o scelta bisogna applicare la specificità del contesto. Le loro esperienze si inseriscono in realtà in un momento storico in cui “bene” e “male” sono concetti vuoti e astratti, incapaci di dar ragione di quanto significavano prima della follia della seconda guerra mondiale. E’ l’assenza di senso che opera la dissoluzione di qualsiasi convinzione: ogni uomo è in grado di compiere azioni aberranti, di passare dall’essere vittima innocente a essere carnefice e colpevole. Chiunque. E’ la banalità del male, individuata dalla Arendt, che la nostra civiltà narcisistica tenta di dimenticare in quanto psicologicamente intollerabile, incomprensibile. Certo allarma l’affermazione che i nazisti sono stati ciò che chiunque di noi può diventare, così come spiazza l’idea che un SS possa aver avuto gesti di pietà e generosità. O ancora che le persone che lottano sulla frontiera del bene e del male insieme a te sono disposte al voltafaccia senza alcuna flessione dell’animo. Alla fine tutti si mascherano in un gioco di specchi in cui nessuno riconosce più né se stesso né l’altro. Ed è questo che Verhoeven racconta. Chissà forse utilizzando sottolineature musicali eccessive o scadendo a volte nel melodramma sentimentale o nella spy story di secondo ordine. Ma glielo si può perdonare no? D’altra parte non è lui l’artefice di successi commerciali quali Robocop (1987), Atto di forza (1990) e Basic Instinct (1992)? E’ un maestro nel mettere al servizio della spettacolarità della storia un intreccio avvincente costruito con un ritmo serrato e costante.