Tra gli spettacoli di punta del Napoli Teatro Festival Italia, giunto quest’anno alla terza edizione, si distingue Bizarra quale interessante prova di teatro sperimentale, in linea con la tendenza alla contaminazione che investe nel complesso tutte le forme di espressione dei nostri tempi.

Bizarra è un curioso caso di teatro seriale: i 20 spettacoli da 80 minuti circa di cui è composto, spalmati lungo tutta la durata del festival (4 – 27 giugno), sono singoli episodi di un unico spettacolo, 20 frammenti di un unico testo. La questione della durata è già da un po’ di tempo di grande attualità nel teatro contemporaneo, che ha visto dilatarsi sensibilmente le 2 ore standard della rappresentazione. Solo per rimanere a questa edizione del festival, campioni interessanti in questo senso sono stati lo spettacolo d’apertura, il monumentale Lipsynch di 8 ore circa, così come i Demoni dostoevskijani reinterpretati da Peter Stein, 11 ore e mezza comprensive di pranzo e cena. Con Bizarra però, da una parte si batte un nuovo record in termini di durata (al termine dei venti episodi lo spettacolo avrà sfiorato le 30 ore totali), dall’altra si dà vita in maniera inedita a una frammentazione radicale della rappresentazione. La questione della serialità, dunque.

Bizarra racconta la storia improbabile, ingarbugliata e grottesca di una strana eclissi solare e un misterioso profumo (Bizarre, appunto), capace di indurre dipendenza in chi lo annusi, attorno a cui si dibatte una umanità a dir poco variegata: gemelle separate alla nascita e vecchie sensitive, uomini d’affari senza scrupoli e poveri in canna, militari paralitici e poliziotti corrotti, giudici integerrimi e psicanalisti svedesi, operai romantici e omosessuali irresponsabili… e molti altri ancora. Il tutto avviene nello scenario dell’Argentina messa in ginocchio dalla drammatica crisi di inizio millennio: un Paese fuori controllo, travolto da scioperi, picchettaggi e rivolte popolari, la cui follia sembra in qualche modo contagiare i personaggi in scena.

La materia narrativa è a tutti gli effetti quella di una telenovela, di quelle che a partire dalla metà degli anni ’80 tutta l’Europa, Italia in primis, ha importato dal Sudamerica di Grecia Colmenares e Osvaldo Laport, prima di iniziare a farsele da sé. Con una sola piccola differenza: il tono è del tutto canzonatorio, nulla di ciò che si vede in scena può essere preso sul serio e le lacrime sui volti degli spettatori potranno tutt’al più scaturire dal riso: ciò a cui siamo di fronte è una feroce parodia.

Per giocare lo scherzo, però, tutti gli elementi della messa in scena devono realizzare un insieme coerente, all’insegna appunto della teatralizzazione della soap opera. Gli attori (45 in tutto, che si alternano di sera in sera) si muovono su un palco che fa di tutto per negare la profondità, per essere bidimensionale: solo ciò che accade in primo piano ha importanza, perché una sola azione per volta può essere posta all’attenzione del pubblico, proprio come prescriveva la paleo-TV, quella pensata e fatta per le casalinghe che, si presumeva, con un occhio guardavano lo schermo e con l’altro controllavano i fornelli. Le scenografie sono costituite di fotografie essenziali e scarne proiettate alle spalle degli attori, così se la scena è ambientata in un ospedale vedremo proiettato sullo sfondo la foto di un interno spoglio e anonimo di un ospedale e così via. Ogni puntata inizia, come si conviene, con un riassunto degli episodi precedenti e si conclude con un’enfatica suspense che fa da gancio per quelli successivi. Al termine, una voce fuoricampo ci assicura che anche la prossima volta non mancheranno colpi di scena ed emozioni ad alto tasso lacrimogeno. Bizarra è a tutti gli effetti una teatronovela.

Questo livello di contaminazione con la TV, che possiamo definire trans-mediale, tuttavia non è l’unico agito dall’opera. Ricercando le sue origini produttive, viene fuori infatti una contaminazione più ampiamente culturale, che le fornisce a ben vedere l’acqua della vita. Bizarra è un progetto risalente al 2003, la cui paternità si deve a Rafael Spregelburd, talentuoso autore e regista argentino della nuova leva. Da qui la contestualizzazione storica e geografica della vicenda, che la caratterizza fortemente come sudamericana, argentina, bairese. A partire dal testo di Spregelburd ha lavorato in fase di traduzione, adattamento e poi di regia la romana Manuela Cherubini, ampliandolo (nell’originale gli episodi erano 10) e trasponendolo in un italiano dalla forte inflessione napoletana, senza tuttavia modificare l’ambientazione argentina: il testo italiano assume cioè i punti di riferimento dell’immaginario di partenza (come la Casa Rosada, per esempio) dentro i simboli della vita quotidiana partenopea. Il risultato è un ibrido a tratti frastornante ma certamente vitale.

Questa scelta in sede di adattamento e in generale l’idea stessa di portare Bizarra a Napoli rivelano da parte di Cherubini e Spregelburd una consapevolezza profonda circa le affinità tra i due Paesi: tra le loro culture di riferimento e, soprattutto, tra le rispettive temperie storico-sociali. è chiaro infatti che il punto di contatto tra l’Argentina e l’Italia, la dimensione comune tra le due locations che dopo un po’ induce lo spettatore a smettere di chiedersi dove siamo, è quella della crisi – poco importa che da noi non sia (ancora?) deflagrata in una forma altrettanto violenta. In una intervista recente Spregelburd ha affermato che “i politici sono attori illegittimi che rubano al teatro i suoi meccanismi di fabbricazione di bugie. Nel caso del teatro, la bugia è esistenziale e nobile per natura. Nella vita politica, la bugia è proprio solo tale: una bugia”. E allora per Bizarra la crisi diventa il tempo e il luogo ideali per far saltare il banco, per smascherare le bugie mettendole in scena nella maniera più kitsch ed eccessiva, per scoperchiare il pentolone e lasciar venire fuori tutto ciò che c’è dentro. Per farsi teatro politico nella maniera più imprevedibile e anticonvenzionale.

A fronte di un progetto così ambizioso e interessante, quello che si può forse “rimproverare” a Bizarra è di non riuscire a mantenere le promesse fino in fondo. La disinvolta commistione di basso e alto, di sostanza narrativa popolare e riflessione sulla forma, non sempre trova una sintesi piena. La sensazione, in sostanza, è che a un tale apparato teorico non corrisponda un lavoro altrettanto brillante in sede di scrittura e messa in scena. Così a risentirne è la godibilità dello spettacolo, troppo spesso affidato solo ai giochi metatestuali che gli attori attivano continuamente con i propri personaggi e nel dialogo con una onnipresente regia “parlante”. Ecco allora che Bizarra oscilla tra punte esilaranti, in cui la critica alla paccottiglia pop in cui annega la nostra società attiva spunti comici fecondissimi, e momenti di stanca quando la trama si fa troppo ingarbugliata e la risata si fa attendere. Sulla lunga distanza il gioco rischia perciò di mostrare la corda. Che sia forse un limite inestirpabile
per un’opera così sperimentale, lunga e spregiudicata? Lo scopriremo forse al prossimo spettacolo seriale.

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