Al Palazzo delle Esposizioni di Roma, fino al 6 gennaio, è possibile vedere alcune opere di Bill Viola, il famoso videoartista americano. É di certo un grande evento mondano.

Vi informo però, che, la maggior parte dei lavori in mostra, fanno parte del suo secondo periodo, il più accattivante, il più affascinante, il più spettacolare, ma di certo non il migliore dal punto di vista artistico. Sono certa comunque, che a molti di voi la mostra è piaciuta, o piacerà, e anche molto. Questo vuol dire, che il mio testo si rivelerà antipatico ad alcuni di voi. Pazienza.

Due parole sulla biografia dell’artista. Bill Viola nasce a New York nel 1951. Vive e lavora a Long Beach, in California. Si laurea nel 1973 in Visual and Performing Art alla Siracuse University. Lavora sin da giovane con alcuni dei veri e incontestabili pionieri del video d’arte: Nam June Paik, Bruce Nauman e Peter Campus. Tra il 1974 e il 1976 lavora a Firenze, come tecnico del leggendario Art/Tapes/22, gestito da Maria Gloria Bicocchi, uno dei primi studi di sperimentazione video in Europa. Pensate. Qui il giovane Bill lavora per Giulio Paolini, Gino De Dominicis, Sandro Chia. Negli stessi anni, inizia a creare i suoi primi video autoprodotti, di una profondità travolgente. Poi, pian piano, perde in profondità e diventa uno dei divi dello star system dell’arte contemporanea attuale.
 Mi prendo la libertà di dirvi che il mio amore per l’arte di Bill Viola ha inizio nel 1997 con The Reflecting Pool, un video del 1979. Immagini luminose proiettate su uno schermo bianco che non erano cinema. Un universo luminoso, mobile, dinamico. È un video splendido, indimenticabile. Un lavoro profondo, tecnicamente complesso, senza sciocchi e ingenui virtuosismi, senza inutili tendenze alla spettacolarità. Ogni volta che lo rivedo, dopo tanti anni, ancora mi entusiasma, mi stimola. Non dura molto, una manciata di minuti, ma il tempo dell’arte, lo sanno tutti, è diverso dal tempo convenzionale: è percettivo al 100 %. Il mio primo Bill Viola: un mondo nuovo, un nuovo modo di vedere il mondo.

Vi invito a questo punto, per chi non l’avese già fatto, a vedere le opere del suo primo periodo, quando Bill utilizzava “gli elementi fondamentali del video: la telecamera e il monitor”, come racconta lui stesso. Parlo di video come The Space Between the Teeth e Migration del 1976 da cui ho imparato molto per quel che riguarda il rapporto tra le immagini e il sonoro e le loro reciproche deterritorializzazioni. Chott el-Djerid (A portrait in Light and Heat) del 1979, un’opera che indaga le suggestioni visive, i miraggi, oppure Ancient of Days realizzato tra il 1979 e il 1981. E come potrei non consigliarvi Hatsu-Yume (First Dream) del 1981 e l’intelligentissimo Reverse Television, oppure Reasons for Knocking at an Empty House e poi Anthem del 1983.
 Il magnetico I Do Not What It Is I Am Like del 1986 e The Passing del 1991. E non si possono dimenticare le sue videoinstallazioni. I riflessi e le riflessioni di He Weeps for You del 1986, Passage del 1987, il suggestivo The Sleepers del 1992, i poetici bagliori di Tiny Deaths del 1993, l’estetica intellettuale e tecnologica di Stations del 1994, Hall of Whispers presentato alla Biennale di Venezia con altri lavori correlati nel 1995. Tra le opere in mostra al Palazzo delle Esposizioni ne abbiamo due appartenenti al primo periodo: l’incantevole e poetica The Veiling e l’imponente The Crossing.

Devo confessarvi che, gli altri lavori esposti, che avevo già visto in altre occasioni, mi erano sembrati da subito, quasi per istinto, più freddi, distaccati e calcolati rispetto ai precedenti.
Prendete ad esempio Catherine’s Room del 2001. Un’improbabile Santa Caterina in versione New Age che si muove rigidamente in scene adornate da simboli obsoleti, scontati. Per non parlare poi di Dolorosa del 2000, oppure la serie dei Quintetti realizzati nello stesso anno, o della superpatinata e tristemente citazionista Emergence del 2003. Sono tutti gelidi, distanti. Troppo pensati, elaborati, abbelliti. Emozioni esasperate, spettacolarizzate. Dispositivi mediatici e ipertecnologici dissanguati. Di questo periodo tecnicamente sofisticato e artisticamente povero, apprezzo comunque Five Angels for the Millenium del 2001 di cui è possibile vedere in mostra solo uno dei cinque angeli, Departing Angel per la precisione che da solo, comunque, non rende l’idea della complessità di questa opera.

Le nuove opere sono sicuramente più piacevoli alla vista, più facili da apprezzare ma autoreferenziali, indifferenti, poco stimolanti. La loro estetica massmediatica è molto simile a quella delle pubblicità che vediamo in televisione, alle scenografie eleganti delle grandi manifestazioni commerciali, sportive, alle vetrine di lusso.
La questione è la seguente: dopo anni di video girati e montati personalmente, pieni di vita e di morte, di ombra e di luce, di verità e di mistero, di gioia, amore, paura, sospensione, meditazione, senza alcuna tendenza all’estetica patinata che piace tanto al pubblico dei musei e delle gallerie, il mio adorato Bill, da qualche tempo, vuole stupirci con gli effetti speciali. Da un anno all’altro ha iniziato a lavorare con attori professionisti dai movimenti studiati, ritratti in pose stucchevolmente teatrali e atteggiamenti tipici degli anni 80, quindi ormai datati e in contrasto con lo stupefacente apparato tecnologico, tipico del nuovo millennio, che caratterizza questo suo secondo periodo. Le sceneggiature degne del cinema, le luci perfette e calibrate da fiction americana, tutto terribilmente perfetto, calibrato. Il cast lavora in set cinematografici superefficienti. La troupe di tecnici e assistenti professionisti è numerosa. Il tutto è sostenuto con forza da un apparato mediatico e promozionale mirato, quasi impeccabile. Inoltre, Bill si autopromuove a meraviglia: parla tanto e bene della sua esperienza artistica. Oltre a essere eloquente, è carismatico. Il problema reale e tangibile è che, la cosiddetta critica, che dovrebbe essere dotata di strumenti adatti per portare avanti il suo lavoro, segue come ipnotizzata le sue direttive. E in realtà nessuno lo critica. Tutti ripetono quello che lui vuole che si dica sulla sua opera. E i neofiti del video d’arte si lasciano incantare.

Per spiegarmi meglio, riassumerò di seguito quel che si legge sui testi dedicati all’artista, interviste raccolte dai libri e dai giornali. Iniziamo quindi il coro dei luoghi comuni, il risultato dell’ipnosi collettiva sotto la tutela del dictat di Viola: la sua arte è per tutti, per gli esperti e per l’uomo comune… il suo lavoro è profondamente religioso, con l’enfasi posta sull’emozione, sul piacere visivo e sul raggiungimento di profondi significati spirituali… tratta di temi estremi dell’esistenza umana come la vita e la morte… la sua arte è un’esperienza mistica… e che, come accade per la grande arte, il lavoro di Viola si incentra sul profondo mistero della creazione stessa… dulcis in fundo è il guru del video e la sua è un’arte di aura e di valori simbolici &nd
ash; permettetemi di ricordarvi che il video e così tutte le arti riproducibili sono nate proprio per sovvertire i concetti di aura e di unicum. E non parliamo poi dell’interpretazione teologica delle sue opere o di quella che accentua la sua tendenza New Age…

Insomma, sono cosciente che quel che sto dicendo sia di certo impopolare, e mi duole dire che anche Bill si è lasciato abbindolare, come purtroppo molti altri, dalle immagini di altissima qualità. Dalla spettacolarità, dalla monumentalità. Ma c’è qualcosa che non capisco: possibile la sua arte sia cambiata così tanto all’improvviso? Cosa può mai essere successo… e perché mi sento una voce che grida nel deserto…
 La risposta arriva proprio durante l’incontro con l’artista al PalaExpo. Proprio durante il suo monologo da profeta televisivo, Bill ammette, un po’ imbarazzato, che intorno al 1998 gli era capitata una cosa terribile: “I have lost my ispiration.” Io lo avevo capito, lo avevo percepito! Infatti non c’è arte nei suoi lavori dopo il 1998, non c’è più la sua essenza, c’è solo spettacolo. Un’ode alla tecnologia, un inno alla bellezza high resolution.

 Ma io resto fiduciosa, studio e aspetto. E mi perdo nel contemplare e nell’ammirare più volte un video che mi attrae, cercando di capirne il motivo, a stare ore e ore a guardare lo stesso quadro, la stessa fotografia, la stessa macchia, lo stesso schermo. E mi emoziono. Perché finché c’è arte, c’è speranza. E mi rendo conto che nulla è per sempre. Neanche il mio Bill.

8 Replies to “Bill Viola. Visioni Interiori”

  1. ho visto solo una parte delle mostra di viola. e in passato ne avevo sentito tessere le lodi da più parti, specie come scrivi tu da esperti e guru delle videoarte. immancabilmente c’era chi alzava gli occhi al cielo citando il divino, assoporando le sublimi vette della sua arte. per cui sono andato con curiosità al palazzo delle esposizioni, non l’ho vista tutta perché alle 22.00 chiudeva la mostra. per quello che ho visto sono rimasto colpito favorevolmente, capisco però, leggendo quanto tu scrivi, i limiti e le critiche che fai. tuttavia, pur valutando col necessario distacco o dubbio le opere citazioniste e troppo costruite da un punto di vista della scenografia e attori, penso che valga la pena andarlo a vedere, specie per chi non l’hja mai visto.

  2. certo, la mostra va vista perchè è comunque un’esperienza. con occhio critico però e senza farsi abbindolare. le due opere, “the veiling” e “the crossing” sono due “fermate” obbligate, da vedere. cristina

  3. Prima cosa: L’approfondimento dopo un piacere (la mostra che piace) secondo me non e’“antipatico”, come temi all’inizio del tuo testo. Anzi, e’ una cosa assolutamente da fare se vuoi capirne di piu’. Grazie quindi per la tua testimonianza. Seconda cosa: Per fortuna non tutti considerano le cose che le piaciono come le cose migliori.

  4. di solito l’arte non si spiega e non si capisce, quindi tranquillo caro diego! è un’esperienza, a volte solitaria a volte collettiva. un evento che entra a far parte del tuo quotidiano, se vuoi… se la vuoi accogliere. se è arte è arte. quando non è arte passa senza lasciare traccia nella tua vita. ma capirla non è necessario. cristina

  5. cita :“Devo confessarvi che, gli altri lavori esposti, che avevo già visto in altre occasioni, mi erano sembrati da subito, quasi per istinto, più freddi, distaccati e calcolati rispetto ai precedenti.
    Prendete ad esempio Catherine’s Room del 2001. Un’improbabile Santa Caterina in versione New Age che si muove rigidamente in scene adornate da simboli obsoleti, scontati. Per non parlare poi di Dolorosa del 2000, oppure la serie dei Quintetti realizzati nello stesso anno, o della superpatinata e tristemente citazionista Emergence del 2003. Sono tutti gelidi, distanti. Troppo pensati, elaborati, abbelliti. Emozioni esasperate, spettacolarizzate. Dispositivi mediatici e ipertecnologici dissanguati. Di questo periodo tecnicamente sofisticato e artisticamente povero, apprezzo comunque Five Angels for the Millenium del 2001 di cui è possibile vedere in mostra solo uno dei cinque angeli, Departing Angel per la precisione che da solo, comunque, non rende l’idea della complessità di questa opera.

    Le nuove opere sono sicuramente più piacevoli alla vista, più facili da apprezzare ma autoreferenziali, indifferenti, poco stimolanti. La loro estetica massmediatica è molto simile a quella delle pubblicità che vediamo in televisione, alle scenografie eleganti delle grandi manifestazioni commerciali, sportive, alle vetrine di lusso.
    La questione è la seguente: dopo anni di video girati e montati personalmente, pieni di vita e di morte, di ombra e di luce, di verità e di mistero, di gioia, amore, paura, sospensione, meditazione, senza alcuna tendenza all’estetica patinata che piace tanto al pubblico dei musei e delle gallerie, il mio adorato Bill, da qualche tempo, vuole stupirci con gli effetti speciali. “

    Hai mai pensato che forse l’artista vuole usare un linguaggio massmediatico proprio per criticare o disegnare uno spaccato della società massmediatica stessa?

  6. Ciao,
    mi chiamo Chiara ,
    sto realizzando la tesi di laurea,
    Volevo solo farti i miei complimenti per la critica che hai fatto a Bill Viola,sono stata a Roma per questa esposizione ed ora è un artista che ho introdotto nella mia tesi.
    Mi piace il modo in cui hai redatto la critica, sinceramente mi ci ritrovo molto in ciò che hai scritto, ma spesso vedendo i libri su di lui in cui viene decantato come un genio, ho quasi il timore di andare oltre, bhè neanche a me trasmettono molto i lavori Dolorosa o Catherin’s Room , mentre Departing Angel o Heaven and Heart si, molto probabilmente ti citerò all’interno del mio scritto, se non ti dispiace, giusto per dire che non è tutto oro quello che luccica! Ce ne vorrebbero di più di storici dell’arte e critici come te, trovo sbagliato “incensare” un artista solo perchè è popolare e decantato come un guru in tutto il mondo, non dico che siano tutti discutibili i suoi lavori, anzi ne trovo alcuni di spessore e davvero belli ma trovo sbagliato seguire sempre la stessa lunghezza d’onda per tutti, alcuni che reputo mediocri, senza un pathos reale!
    tutto questo per dire che c‘è anche l’altro lato della medaglia nelle cose e nell’arte

    Buona giornata
    Chiara

  7. Caro Pietro, no, sono certa, dopo aver studiato ogni commento di Bill Viola disponibile in commercio e averlo ascoltato di persona, che il suo non è più un linguaggio utilizzato contro “un qualcosa”. Questa meravigliosa tendenza politica era insita nei primi esperimenti di video d’arte, dei veri precursori del mezzo video, vedi Vostell o Nam June Paik. I lavori di Bill Viola attuali sono “vera arte americana”, l’arte di un sistema basato sul mercato e sull’autocelebrazione di un capitalismo senza remore. Grazie del tuo commento, Cristina.

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