Cristina Comencini non si scosta dai suoi quartieri verdi con parcheggio e balconi. Dalle indagini borghesi su tematiche contemporanee, eleganti e radical. La famiglia l’ha guardata spesso da vicino, con una leggerezza o una serietà che mai, da Liberate i pesci a La bestia nel cuore, hanno saputo trasformarsi in oro. Ora riavanza con la commedia che pure ha già sperimentato, con propositi alti e impari rispetto ai risultati. La regista mantiene fedele attenzione a temi sociali più olfattivi che tattili, caldi, atmosferici e antimaterici, che la inseriscono, di diritto e a pieno titolo, nel cinema di costume italiano. Un cinema medio sempre serio nelle intenzioni e nel comportamento, quello della Comencini, al di là dei toni usati e del valore finale del film. Un cinema di interni e relazioni personali spesso morbose, di appartamenti e automobili, fatto di rapporti faticosi e necessari.
Sopra il “caro” e dissacrato universo familiare la regista allestisce un’onesta, dignitosa ma pigra riflessione su un argomento nobile e delicato: cosa c’è dentro la convenzionale e astratta rappresentazione del rapporto tra bianchi e neri oggi, oltre la teoria e il politically correct, all’interno di una media borghesia romana che la regista conosce, coi suoi mestieri e i suoi malcelati background caratteriali e culturali.
Bianco e nero avanza a strattoni, con un andamento indeciso anche se nel complesso gradevole, con attori bravi a tratti ma scostanti nel regalare vita vera al personaggio. Guizzano virtuosi i Volo e le Angiolini quando hanno il vento a favore. Soffrono invece quando il personaggio si allontana dalle loro corde. Allora si abbassano a un registro che non hanno ben capito e individuato. Se la cavano rifugiandosi nel gruppo e pedalando con affanno, portando a casa i punti necessari per partecipare al prossimo film. Il pregio principale di Bianco e nero è quello di parlarci della differenza che c’è tra un giudizio teorico da divano, costruito sul non incontro e valido come la sentenza su un film non visto, e l’analisi scomposta dell’emozione a caldo. Che nasce, al contrario, direttamente dal contatto con una realtà fattuale, la quale, a dispetto del facile e disutile ben pensare, offre il fianco a sensazioni contraddittorie e complicate. Tra bianchi e neri c’è una distanza storica e forse naturale che soltanto un obbligato e casuale sforzo di avvicinamento, possono riuscire ad annullare. Il punto di arrivo della regista romana è sempre lo stesso: l’amore e l’amicizia, in una parola il sentimento per l’altro, sono gli unici reagenti attraverso cui sviluppare conoscenza e verità. Base di ogni rapporto veramente umano. Sono i soliti vecchi, fondamentali, forse unici valori grazie ai quali si può cambiare la vita e il mondo. Il nostro e quello degli altri.
Con il contatto, che va dalla lite al rapporto sessuale, si scopre che i neri non sono tutti uguali, che anche loro vivono separati e uniti in classi sociali, che la borghesia esiste anche tra i neri e che le difficoltà culturali provocano in loro imbarazzo e fastidio come avviene per noi. Il film aiuta a ribadire, e non è detto che non ce ne sia bisogno, che dietro la razza, dentro la pelle (più o meno) nera o (più o meno) bianca, e oltre l’odore di quelle pelli e il timbro di quelle voci, c’è la vita che muove altre vite, che attrae e che fa saltare, senza possibilità di ritorno, le barriere reali della differenza. Ci sono domande e riflessioni nel film che possono tornare utili. Siamo abituati a vedere gente di tutte le razze ma quanti rapporti autentici, liberi, svincolati, produce la nostra forzata e fredda multiculturalità? Ragioniamo sul nostro pensiero circa i neri, ma più difficilmente ci chiediamo cosa loro pensino di noi. Ci dipingiamo spesso come bravi a metterci sullo stesso piano ma cadiamo nel complesso di superiorità quando ci proponiamo di essere gli unici capaci di gestire e sviluppare il rapporto. Esistono molti film che sbirciano nelle finestre degli immigrati, film che parlano la loro lingua, che si nutrono del loro cibo e che pedinano il loro inserimento. C’è un cinema che, secondo tradizione, è molto attento alle ultime nuove forme di proletariato. E’ una tradizione cinematografica internazionale, molto festivaliera, molto autoriale.
Questo film invece, vittima dell’anticinema per la mancanza di una forma narrativa seducente e personale, ragiona oltre il primo processo integrativo: quello
socio-economico. E non racconta gli ultimi con la valigia e con lo spago, rabbiosi e disperati nelle baracche attorno alla città. Non è un film sull’inserimento ma su una disparità naturale e culturale che interviene a mantenere viva una questione sempre spinosa. La leggerezza, alla lunga più limitativa che apriscatole, non è mai esilarante né acuto e incisivo è lo sfruttamento serio di un ottimo tema. I caratteri di contorno, tanto osannati in questi giorni, conferiscono al prodotto una effervescente freschezza, ma non lo aiutano a trasformare in un utile e catalogabile film medio, in una perla da citare come poteva essere il film più vicino a questo: Indovina chi viene a cena, di Stanley Kramer. Restano le domande che il film ci fa, le piccole sollecitazioni che ci offre e un prodotto volenteroso ed educato che per un pubblico vasto rimane almeno assolutamente salutare.