L’Africa post-coloniale é lo sfondo in cui si svolge la vicenda di Schlafkrakheit – La malattia del sonno di Ulrich Köhler ricompensato a Berlino con il prestigioso Orso d’Argento per la Migliore Regia. L’idea di partenza del film, quella dei destini incrociati di due uomini – un europeo, Ebbo Velten, che vive in Africa e si sente africano e un africano, Alex Nzila, che è nato in Europa ma rinnega le sue origini etniche – avrebbe potuto costituire, almeno in teoria, uno spunto interessante. Ulrich Köhler conosce di prima mano il continente nero per avervi vissuto, per un certo periodo, con i suoi genitori, medici in missione umanitariai, come il protagonista del film. Purtroppo, benché animato da buone intenzioni e da un amore sincero per l’Africa, il film si perde a metà cammino fra un intrigo melodrammatico e dei vaghi propositi a sfondo umanitario.
La sequenza iniziale del film è carica di tensione. Assistiamo ad un passaggio di frontiera nel cuore della notte: Ebbo Velten sta conducendo la moglie e la figlia, appena arrivate dall’Europa, verso casa e viene fermato e controllato. Il tono dei soldati è minaccioso, una torcia illumina i volti dei passeggeri, la figlia del dottore non ha nessun documento con sé, le cose sembrano per un istante prendere una brutta piega, ma l’ostilità ambientale viene appianata da Ebbo che accetta di dare un passaggio ad uno degli uomini della scorta; l’incidente si risolve senza scalpore e senza drammi.
Inizia così una vicenda fabbricata sul filo di tensioni e conflitti latenti che non giungono mai ad un punto di deflagrazione. Tutto è instabile e nebuloso: l’identità dei personaggi, le loro motivazioni profonde, le loro vere mete. Altrettanto brumosi ed inconsistenti sono i contorni dei paesi presentati nel film: una Parigi evocata, un continente Africano tratteggiato sommariamente.
La prima parte della pellicola tratta semplicemente dei problemi di famiglia del protagonista. Ebbo e Vera Velten vivono da 20 anni in Africa dove Ebbo dirige un programma dedicato alla malattia del sonno. Vera soffre della lontananza di sua figlia che frequenta un collegio in Germania e ha deciso di trasferirsi definitivamente da lei. Se non vuole perdere la sua famiglia, Ebbo deve rinunciare alla sua vita in Africa. Durante un meeting in cui Ebbo presenta il suo successore ai responsabili locali del progetto, vengono evocati diversi problemi: la mancanza di organizzazione e di trasparenza, la corruzione delle autorità, le difficoltà per ricevere dei nuovi finanziamenti e delle sovvenzioni ma la trama passa velocemente ad altro.
Gaspard Signac, un uomo d’affari francese amico del dottore da anni, vuole convincerlo a restare per fare del business con lui e tenta di allettarlo presentandogli una giovane donna africana. Ebbo resta completamente insensibile alle sue offerte e si dichiara deciso a lasciare l’Africa.
A questo punto con un’ellissi spazio-temporale ci ritroviamo nel bel mezzo di un dibattito pubblico sull’opportunità di sovvenzionare i paesi Africani in via di sviluppo. Ancora una volta questa tematica è semplicemente accennata e la scena non sembra avere nessun altra funzione che quella di introdurre il secondo protagonista della vicenda: Alex Nzila, un giovane medico di origine africana, nato e cresciuto in Francia. Alex viene inviato dall’OMS in Camerun per valutare il programma sulla prevenzione della malattia del sonno diretto da Ebbo. Arrivato sul posto, l’uomo è un pesce fuor d’acqua e si comporta come un classico turista europeo, sprovveduto da un lato e presuntuoso dall’altro. Dopo innumerevoli avventure tragicomiche Alex riesce ad arrivare nel villaggio sperduto dove è stato allestito l’ospedale di Ebbo. La realtà che si trova davanti è sconcertante: non ci sono più malati perché la malattia del sonno è nel frattempo quasi scomparsa, le stanze sono per lo più utilizzate come stalle e pollai, il fantomatico dottore che dirige l’ospedale é introvabile.
In mezzo a tutto questo caos Alex si trova a dovere praticare d’urgenza un taglio cesareo ad una donna senza averne la ben che minima idea e si lascia guidare tramite il cellulare da una collega che si trova in Francia. Il bimbo partorito dalla giovane donna africana si rivela essere il figlio di Ebbo che, in realtà, non ha mai lasciato i luoghi.
Il film si conclude con una battuta di caccia notturna in cui Alex accompagna Ebbo nella giungla. All’alba ritroveremo
il giovane uomo solo, mezzo morto in riva ad un fiume. Poco dopo sorgerà dal fondo della vegetazione un grosso
ippopotamo, dirigendosi lentamente verso l’acqua…
Questo finale ha preso tutti alla sprovvista durante la proiezione stampa provocando uno scroscio di risate.
La malattia del sonno é un’opera post-moderna costruita intorno ad una serie di luoghi comuni e bizzarramente impreziosita in extremis con una nota di incantesimo alla Apitchatpong Weerasethakul. Purtroppo la magia allucinatoria della giungla filmata dal regista thailandese è sostituita qui da una foresta di paccottiglia priva di mistero dalla quale fuoriesce, come dalle quinte di un teatrino, uno sgraziato quadrupede. e il confronto con l’opera di Apitchatpong Weerasethakul si imita alle ultime immagini del film l’accostamento con White material di Claire Denis si impone già dal primo fotogramma. Sia Claire Denis che Ulrich Köhler hanno vissuto una parte della loro infanzia in Africa e quest’esperienza ha lasciato in entrambi un segno profondo; nonostante ciò La malattia del sonno si situa a mille miglia di distanza dal film Claire Denis, un viaggio, intriso di nostalgia, nel cuore delle tenebre. Laddove Köhler si limita a sfiorare una serie di problematiche in maniera sommaria e anonima, la regista francese sonda l’intensità dilaniante dei conflitti che agitano le etnie, la dissoluzione del nucleo famigliare, le forze oscure che dominano i rapporti fra i bianchi e la popolazione locale sprigionando passioni distruttive, violenza e follia.
La malattia del sonno sarebbe stato un ottimo telefilm e ne ha tutti gli ingredienti: una storia d’amore, un po’ d’avventura, l’ambientazione esotica, un pizzico di mistero, qualche scena comica, uno sfondo sociale politicamente corretto. Il film glissa placidamente senza scavare sotto la superficie delle cose e si trascina con una specie di indolenza attonita. Pierre Bokma nel ruolo di Ebbo Velten sa trasmettere con sensibilità il calore umano e lo sgomento del suo personaggio, combattuto fra l’affetto per la sua famiglia e la passione divorante per l’Africa, ma la sua interpretazione si perde in un cast che, nonostante la presenza di alcuni eccellenti attori francesi come Hyppolyte Girardot e Nathalie Richard nei ruoli secondari, non trova una vera coesione. Qualche bella ripresa in piano largo dei paesaggi africani e le immagini dal sapore documentario che il regista ha girato nello stesso piccolo ospedale campestre dove hanno lavorato per anni i suoi genitori non bastano, purtroppo, a controbilanciare i limiti di questa pellicola.
La malattia del sonno sembra esitare fra il melodramma familiare, accennato, le tematiche socio-politiche, sfiorate, e una dimensione mitica che rasenta, suo malgrado, la parodia. L’attribuzione dell’Orso d’Argento per la regia ha lasciato attoniti più d’uno. Ma, si sa, i premi sono sempre frutto di negoziazioni
e compromessi.