The Turin horse di Béla Tarr é cinema allo stato puro: un’esperienza di estasi alla quale bisogna sapersi abbandonare. In uno stile ascetico e severo, intriso di poesia, il regista ci narra una parabola sulla fine del mondo. Con The Turin Horse il concorso berlinese per l’Orso d’Oro tocca, senza ombra di dubbio, il suo apogeo artistico.
Un prologo narrato con una voce fuori campo racconta la storia che precede e dalla quale scaturisce l’idea del film:
“Il 3 gennaio del 1889, Friedrich Nietzsche esce dalla sua casa situata al numero sei della Via Carlo Alberto a Torino. Poco lontano un carrettiere che non riesce più a fare partire il suo cavallo inizia a frustarlo con furia; Nietzsche si avvicina, abbraccia il cavallo per proteggerlo ed inizia a singhiozzare. Qualcuno lo riporta a casa; Nietzsche passa due giorni steso a letto in silenzio, poi proferisce le sue ultime parole famose: “Madre, sono uno stolto”. Passerà gli ultimi dieci anni della sua vita in uno stato di demenza docile curato amorevolmente dalla madre e dalla sorella.”
Questo è quanto successe a Nietzsche. Ma cosa ne fu del cavallo e del suo carrettiere? The Turin Horse ci racconta il seguito di questa storia.
Il film inizia con un piano sequenza memorabile. La macchina da presa segue la corsa sfrenata del cavallo e del carrettiere attraverso le lande desolate e nebbiose di un paesaggio invernale. Eseguendo delle acrobazie invisibili e magiche, l’obiettivo ruota intorno al corpo e alla testa dell’animale senza mai abbandonarlo. La musica che accompagna questa sequenza – una melodia ossessiva e sublime che verrà a scandire in seguito vari momenti della trama – crea un’atmosfera epica, grandiosa; colora il mondo arcaico della vicenda con una tensione palpabile; la sua forza ipnotica ci immerge completamente nell’universo della finzione.
Dalla Torino del 19esimo secolo, evocata nel preludio, veniamo improvvisamente proiettati nella campagna ungherese, sulle orme di un vecchio carrettiere e di sua figlia che vivono isolati in una casa di pietra, lontana da tutti. Una tempesta di vento si abbatte sui luoghi.
Profondamente influenzato dalla filosofia nietzschiana, Béla Tarr ci propone una riflessione metafisica sul mondo e sulla condizione umana, dominata dal dolore profondo della morte.
La vicenda si svolge nello spazio di sei giorni, il tempo che Dio impiegò per creare il mondo, ma ripercorre questo cammino all’inverso, avanzando, lenta ed ineluttabile verso un finale apocalittico.
Il primo giorno il cavallo si rifiuta di muoversi, il secondo giorno non vuole più mangiare, il terzo giorno si rifiuta anche di bere. Il quarto giorno non c’è più acqua nel pozzo; padre e figlia decidono di partire a piedi, caricano su un carretto i loro beni più cari e spingendolo con fatica contro la furia del vento tentano di avanzare ma non ce la fanno e, poco dopo, ritornano indietro. Il quinto giorno il padre perde l’appetito. Il sesto giorno anche la ragazza perde l’appetito; improvvisamente il vento cessa di soffiare, è notte, padre e figlia cercano di accendere un lume a petrolio, invano, poi anche la brace del forno si spegne. Le tenebre del nulla hanno inghiottito definitivamente il creato.
Girato in bianco e nero con una fotografia di grande eleganza che predilige l’oscurità, la semioscurità e gioca principalmente sulla gamma dei grigi, il film di Béla Tarr fa un uso molto parco della parola. La parabola che si svolge davanti ai nostri occhi vive attraverso i gesti reiterati dei suoi personaggi, la descrizione minuziosa del loro fare, la durata dilatata delle loro azioni. Con un partito preso radicale e splendidamente poetico, il trascorrere del tempo ci é restituito qui in tutta la sua autenticità. acendo uso di uno linguaggio estetico arcaico e severo, Béla Tarr ci descrive con grande sobrietà le loro condizioni di vita. Silenziosi e caparbi, padre e figlia, eseguono con perizia i duri compiti della loro vita quotidiana: la ragazza aiuta pazientemente ogni mattina il padre, che ha perso l’uso di una mano, a vestirsi; accende il fuoco; si reca al pozzo e trasporta più volte i pesanti secchi d’acqua; poi si occupa del cavallo e prepara la cena.
In un rituale che si ripete, invariabilmente, ogni giorno, la ragazza mette due piatti di legno sul tavolo e vi getta due patate bollenti: una per lei ed una per il padre.
Béla Tarr filma con sensibilità i movimenti svelti ed avidi delle dita del vecchio mentre toglie impaziente, bruciandosi, la pelle della patata poi, con un gesto veloce, la schiaccia e se la mette in bocca. La rapidità con cui questa scena si svolge, comparata alle lunghe ore di lavoro penoso che l’hanno preceduta, mostra, in maniera palpabile e dolente, quanto esigua sia la ricompensa che spetta a questi individui a fronte delle loro quotidiane fatiche. La sensibilità di Béla Tarr si rivela tanto nei primi piani, quanto nel suo gusto per le composizioni astratte e i piani sequenza.
Il film dura 146 minuti ed è stato girato in soli 30 piani: con uno stile scabro ma estremamente elaborato i movimenti della macchina da presa riescono, in maniera fluida ed impercettibile, a portarci da un punto all’altro dello spazio, senza alterare minimamente la nostra percezione. Il significato, più che essere affidato al flusso del discorso, sorge qui dall’osservazione dell’immagine, dall’ascolto del suono. I dialoghi fra padre e figlia sono rari e si limitano a poche parole; una domanda della figlia, un ordine secco del padre. Nei pochi momenti in cui la parola appare diviene portatrice di un messaggio apocalittico. Il secondo giorno un vicino benestante, venuto a comprare dell’acquavite, si attarda col vecchio e, seduto al rozzo tavolo della famiglia, pronuncia un discorso infuocato sulla sopraffazione dei deboli da parte dei forti e sulla malvagità della natura umana. Il quarto giorno un gruppo di zingari si avvicina al pozzo della casa, prende dell’acqua e come ricompensa lasciano alla ragazza un libro. Il testo che la giovane donna si mette a leggere, a stento, sillaba per sillaba, contiene delle oscure profezie sulla fine del mondo.
Un’altra parola ancora ci giunge dallo spazio nero ed indefinito del fuori campo attraverso la voce di un narratore esterno che ci guida lungo i meandri reconditi di questa storia.
Il vero protagonista del film è il vento, presagio inquietante di sventura che soffia inesorabilmente travolgendo l’esistenza dei protagonisti in una tempesta quasi senza fine. Impossibile non pensare al capolavoro di Victor Sjöström del 1926 Il vento del quale il film di Béla Tarr, in maniera più o meno conscia, rende qualche lontana eco. Il suo sibilo ininterrotto accompagna ogni piano all’interno della casa per diventare furioso e minacciante nelle scene d’esterno. Le folate continue alzano nuvole di polvere che avvolgono i personaggi ogni volta che si avventurano fuori dalla porta di casa e rendono penoso ogni loro movimento. La partitura sonora del film alterna il soffio costante del vento con il leit motiv melodico della prima sequenza che scandisce con sinistra insistenza le tappe di un cammino fatale.
In questo universo cupo e minaccioso i corpi degli attori fanno resistenza, la loro presenza è solida e pregnante. Come nei film di Bresson, i protagonisti non recitano, non interpretano una parte, ma incorporano, con una dedizione assoluta, i personaggi: “Non c’è una direz
ione d’attore, nel senso comune del termine – ha spiegato Jànos Derzsi, l’attore che impersona il vecchio nel film – Béla è un pazzo monomaniaco; nelle sue mani siamo semplicemente delle bambole”. Ad un altro attore Tarr ha semplicemente detto: “Voglio che i tuoi occhi sembrino veri!”
La creazione dei film di Béla Tarr è una teleturgia collettiva, il regista collabora da anni con uno stesso gruppo di persone che condivide profondamente la sua visione estetica e la sua concezione del mondo e lavora in pieno accordo su ogni nuovo progetto, anima e corpo, senza compromessi, con una coerenza artistica e morale fuori dal comune: “Il concetto visuale del film risulta dalla nostra visione comune, siamo un team che lavoriamo insieme da anni; non abbiamo bisogno di litigare, posiamo semplicemente la mannica da presa sul suolo e dal quel momento in poi cerchiamo di fare del nostro meglio”, ha detto il regista durante la conferenza stampa. “La formula di base della vicenda narrata è semplice: nel momento in cui il cavallo, che è l’unica fonte di sussistenza per l’uomo, non ce la fa più, il mondo cessa di esistere. Dicono che questo è il migliore dei mondi possibili. Io invece penso che non sia così. Forse potrei spiegare il mio film dicendo che qui viene descritto l’esatto contrario del titolo di un famoso libro di Kundera: cioè l’insopportabile pesantezza dell’essere. La nostra condizione di esseri mortali è un qualcosa che non ci permette di essere completamente felici.”
In che modo è possibile continuare a fare un cinema che si affaccia, coraggioso ed indomito, sull’abisso del nulla? Un critico aveva detto, a proposito di Satantango, che con questa pellicola Béla Tarr aveva abolito l’opera cinematografica in sé come genere. Traduzione e trasfigurazione visuale del nichilismo nietzschiano di cui si nutre, il cinema di Béla Tarr sembra avere raggiunto con The Turin Horse il suo limite sommo ed estremo. Forse fra qualche tempo potremo dire di avere assistito all’ultimo film dell’artista: “Con The Tourin Horse sento di avere chiuso un ciclo; dopo questo film non potrei fare altro che ripetermi. Penso di avere detto quello che avevo da dire. Quando pianto la cinepresa per terra ormai non mi viene in mente più nulla di nuovo…”.
Noi ci auguriamo vivamente che non sia così.