Da Berlino – Shekarchi (Il cacciatore) di Rafi Pitts era uno dei film in competizione che aspettavo di vedere con maggiore curiosità visto il ricordo molto bello che avevo di It’s Winter (2005), ultimo lavoro del regista, ritratto complesso, poetico e realista di una piccola famiglia in Iran.
Mi sono trovata di fronte a tutt’altro: Shekarchi é un film dall’atmosfera kafkiana, ermetico, quasi astratto, molto freddo. Volutamente ellittico e con un finale ambiguo, Shekarchi lascia ampio spazio alla nostra interpretazione. Rafi Pitts ha affermato di preferire al punto finale, ad una narrazione esplicita ed in sé conchiusa, i punti di sospensione che lasciano aperto l’esito del film ed invitano lo spettatore a riflettere. Il film deve essere letto come una metafora, ma decifrarne il messaggio non è un’operazione semplice.
Shekarchi – storia della vendetta sanguinaria di un uomo contro la polizia – é un film che é stato superato dagli eventi. E’ necessario soffermarsi brevemente sulle circostanze della produzione. La sceneggiatura era già stata scritta da tempo. Rafi Pitts, che aveva presentato il suo progetto alla commissione responsabile a Teheran ed aveva ottenuto il permesso di filmare, ha girato il film durante la campagna elettorale, quindi prima delle contestazioni di massa di questa primavera e di tutti gli eventi che ne sono seguiti. Visto sotto questa luce Shekarchi ha senza dubbio un qualcosa di visionario, di premonitore.
Prima di passare ad ulteriori considerazioni ecco la trama. ll film è suddiviso in due parti: la prima si svolge in città, la seconda nella foresta. La vicenda ha luogo d’inverno. Dalle prime scene del film Rafi Pitts instaura un’atmosfera pesante, plumbea, piena di presagi nefasti.
Ali é un uomo solitario, introverso, dal passato oscuro; é stato in prigione, ma non ne sapremo mai il perché, il motivo é volutamente vago e lascia libero corso alla nostra immaginazione. L’uomo soffre a causa di questo passato: nella fabbrica dove ha trovato lavoro vorrebbe smettere di fare dei turni di notte per potere trascorrere più tempo con sua moglie e la loro bambina, ma questo favore non gli viene accordato a causa dei suoi antecedenti penali. Ali trova sfogo alla sua frustrazione andando a caccia, da solo, nei boschi al nord della città. Mentre guida, dalla sua autoradio risuona il discorso acceso di un uomo politico che grida: “A morte i dittatori!”
Una sera, di ritorno da una delle sue battute di caccia, trova la casa vuota: sua moglie e la sua bimba non sono tornate. Passa molte ore a cercarle, invano. Nel cuore della notte riceve una telefonata dalla polizia che gli dice di recarsi in un commissariato. Dopo ore di attesa estenuante viene accolto da un funzionario che insiste, prima di dargli notizie dei suoi, nell’interrogarlo come se fosse un colpevole. Alla fine Ali apprende l’orrenda notizia: sua moglie è stata uccisa durante uno scambio di spari fra la polizia e un gruppo di dimostranti, mentre di sua figlia si è persa ogni traccia. Dopo avere identificato il cadavere della moglie Ali inizia una ricerca tanto disperata quanto infruttuosa della sua bimba. Pochi giorni dopo è chiamato ad identificare anche il cadavere di sua figlia. In preda ad un raptus, l’uomo si apposta sulle alture della città puntando con il suo fucile in direzione dell’autostrada. Spara su un’auto della polizia e uccide due poliziotti.
Qui inizia la seconda parte del film. Ali fugge in macchina verso il nord, una volta giunto al mar Caspio si rende conto di essere stato avvistato da un elicottero. Compra una macchina nuova e si mette nuovamente in fuga; su una strada di montagna viene raggiunto dalla polizia e cerca di nascondersi nel bosco circostante. Due poliziotti lo raggiungono e lo fanno prigioniero. Nella nebbia fitta che copre tutto, i tre uomini finiscono per perdersi nel bosco. Trovano rifugio in una casa abbandonata. Un conflitto sorge fra i due poliziotti; il più anziano, vorrebbe sparare subito al prigioniero e farla finita, il più giovane, invece che sta semplicemente facendo il suo servizio militare e non condivide l’abuso di potere del suo superiore riesce a convincerlo di non uccidere Ali ma di consegnarlo, come di dovere, alla giustizia.
Il film termina in maniera inattesa: mentre il poliziotto più anziano si è allontanato per cercare dei rinforzi, quello più giovane propone uno scambio: Ali viene liberato e gli viene data una pistola, potrà fuggire ma dovrà prima uccidere il suo collega. Ali riesce a prendere in mano la situazione, ma impietosito dalle preghiere dell’uomo finisce per non sparargli. Dopo averlo ammanettato e legato al muro s’impossessa della sua uniforme ed esce allo scoperto… Lo aspetta però una sorpresa…
A descriverlo così il contenuto del film sembra avere un ritmo mozzafiato, ma a questa ricchezza di eventi non corrisponde la stessa intensità e la stessa chiarezza nella messa in scena. Il tono è dimesso e contenuto, i tempi sono diluiti, interrotti solo a tratti da brevi momenti d’azione frenetica, i dialoghi sono scarsi e laconici. La storia ci descrive un paese sull’orlo dell’implosione, ma tutto resta vago, indefinito, brumoso. Da un lato c’è il potere degli organi di stato, corrotti ed arroganti, dall’altra una massa di ribelli senza nome che non vedremo mai sullo schermo e di cui – forse, ma non è certo – fa parte anche la moglie del protagonista. In mezzo a tutto ciò si trova l’individuo frustrato, impotente ed imprevedibile come una bomba ad orologeria.
Rafi Pitts costruisce un universo simbolico che rimanda, costantemente, al non detto. Tutto resta allo stadio dell’indizio, dell’allusione, nulla viene espresso chiaramente. All’economia dei dialoghi fa eco il volto impassibile dell’eroe, una maschera buia e malinconica. L’idea di giocare lui stesso il ruolo del protagonista, anche se è stata – come ha spiegato il regista durante la conferenza stampa – una soluzione di ripiego, è certamente fra le meno felici del film.
Nella seconda parte del film quello dei rapporti umani diventa uno scenario selvaggio di animali braccati in cui è difficile capire e giudicare chi ha torto e chi ha ragione. L’introspezione psicologica é completamente assente; non riusciamo a provare né simpatia, né vera compassione per nessuno dei personaggi, i loro atti non vengono giustificati, sono dettati da ragioni imperscrutabili, da interessi oscuri e contrastanti, il loro modo di agire è imprevedibile, le loro motivazioni incomprensibili. L’ambientazione di Shekarki, pur essendo di stampo realista, crea un’atmosfera astratta ed indefinita, tanto che a tratti – nonostante molte indicazioni ci facciano pensare all’Iran – si ha l’impressione che il film sia stato girato altrove.
L’immagine che Rafi Pitts ci dona di Teheran è spettrale; una megalopoli tentacolare che vediamo di preferenza filmata dall’alto e da lontano. Dei piani molto larghi ci mostrano un groviglio di autostrade brulicanti di traffico. Le scene filmate per strada ci rivelano invece una città insolitamente vuota. I marciapiedi, che sappiamo essere affollati e pieni di vita, sono scarsamente frequentati durante il giorno, mentre di notte sono lugubri e completamente deserti. Anche l’interno della casa del protagonista è asettico, arredato in modo minimalista, quasi una scenografia teatrale; un luogo interscambiab
ile che, in teoria, potrebbe trovarsi ovunque.
Rafi Pitts ha affermato, durante la conferenza stampa, che si tratta di un film molto personale, molto sofferto, ed è certamente stato sincero. Forse il regista ha voluto parlare di troppe cose, toccare troppe problematiche insieme; purtroppo il film ne risente e corre il rischio di ridursi ad un groviglio di intenzioni e di propositi difficilmente discernibili. Shekarchi piuttosto che proporre un messaggio concreto, cerca dei perché, ed in questo senso – proprio attraverso i suoi difetti – finisce forse per diventare il migliore testimone di un momento di transizione e di profondo malessere.
Shekarchi è un film ruvido, scomodo, inclassificabile ed ermetico, geograficamente situato in Iran eppure visibilmente astratto ed universale. Nel film manca il calore, la commozione; si avverte un gesto più intellettuale che emotivo. Ciononostante a qualche giorno di distanza dalla prima visione – che ha deluso più d’uno – il film di Rafi Pitts continua a irradiare uno splendore freddo ed inquietante che ci spinge a riflettere. Shekarchi è un’opera che non ci svela il suo segreto ma ci seduce portandoci verso delle zone d’ombra, personali e collettive dalle quali, di solito, preferiamo distogliere lo sguardo; in questo senso è un film profondamente politico.
Post Scriptum:
Mentre stavo finendo di scrivere queste righe, ho ricevuto una mail dall’ufficio stampa della Berlinale con la notizia dell’imprigionamento in Iran di Jafar Pahahi. Al regista, autore di film famosi come Il cerchio (Leone d’Oro a Venezia nel 2000) e Offside (Orso d’argento a Berlino nel 2006), era già stato rifiutato, alcuni giorni fa, il visto per recarsi al festival dove avrebbe dovuto prendere parte ad una tavola rotonda su: “Cinema iraniano: Presente e futuro. Aspettative in e fuori dall’Iran.”