Coronamento di 10 giorni intensi di festival la Cermonia di premiazione della 68esima Berlinale resterà certamente memorabile, ma non per le ragioni che si sarebbero auspicate.

L’annuncio dell’attribuzione dell’Orso d’Oro a Touch me not di Adina Pintilie è stato accolto da una reazione esterefatta e assolutamente gelida nella grande sala del Berlinale Palast. Fra l’imbarazzo generale, la regista è salita per la seconda volta nel corso della serata sul podio per ricevere l’Orso d’Oro, ringraziando la giuria e tutti i suoi attori e collaboratori.

Quella della 68esima Berlinale può essere annoverata fra le premiazioni più contestate della storia del festival. L’attribuzione della massima riconpensa aTouch me not ha provocato una vera e propria sommossa, scatenando le passioni della critica del mondo intero. All’incompresione, all’indignazione ed agli attacchi inverosimilmente virulenti della critita locale, si sono infatti aggiunti quelli della critica internazionale.

Un altro versante di dissenso, ad un livello ideologico più che estetico, si è venuto a creare nel campo femminista che ha giudicato il punto di vista del film come eminentemente machista.

Certo di fronte ai detrattori si sono schierati anche dei critici che hanno saputo trovare delle qualità positive nel lavoro di Adina Pintilie vantandone la sensibilità, l’originalità dell’approccio estetico e un gusto spiccato per la ricerca formale.

Il fatto di avere vinto ben due premi, oltre all’ambito Orso d’Oro Touch me Not ha infatti vinto anche il premio per la migliore opera prima, ha ovviamente gettato la luce di tutti i riflettori sul film agendo come una brutale lente d’ingrandimento ed esponendolo ad un’attenzione mediatica smisurata alla quale quest’opera prima, per molti versi ancora fragile ed irrisolta, non era certamente destinata.

In questo contesto sorge anche il soggetto della legittimità, da molti contestata, della selezione di Touch me not nel concorso internazionale.

A mio avviso il film di Adina Pintilie, pur con tutti i suo eventuali limiti, ha giustamente meritato un posto in seno al concorso in una logica – forse discutibile per alcuni- di una sua apertura ad opere dal carattere più sperimentale e meno standardizzato del solito.

Un elemento che ha probabilmente giocato un suo ruolo nella decisione spiazzante di coronare Touch me not con l’Orso d’Oro è stata tutta la discussione, estrinseca al film, sul soggetto di #me too# che la Berlinale, fedele alla sua linea ‘politically correct’, ha pienamente abbracciato.

Di fatto i due premi principali del festival sono stati attribuiti a due registe: il Gran Premio della Giuria è andato infatti a Malgorzata Szumowska per Twarz.  Sorge ovvia la domanda di quanto un fattore di “discriminazione positiva” abbia portato la giuria a favorire le registe donne in concorso.

Se Touch me not, opera sperimentale per molti versi ancora in fieri, ha l’enorme pregio di affrontare un soggetto difficile e delicato come quello dell’intimità scegliendo un percorso di ricerca formale, estetica ed umana periglioso che esce coraggiosamente dai sentieri battuti, proponendoci un approccio inedito, toccante ed autentico, non si può dire lo stesso del film di Malgorzata Swumovska che gioca sapientemente con una serie di cliché, offrendoci un’opera superficiale e piena di luoghi comuni.

Mentre in Touch me not assistiamo alla messa in scena rigorosa e sensibile di un vero lavoro d’introspezione nel corso del quale gli attori e la regista stessa si mettono personalmente in gioco, esponedosi audacemente al nostro sguardo per sondare quella zona delicata, dolorosa e liminare in cui il corpo e l’anima si toccano, Twarz si limita a creare una posse moralista senza doppio fondo.

La vicenda del film prende come spunto la costruzione di un immensa statua del Cristo in una cittadina della provincia polacca. Jacek, il protagonista, un ragazzo ribelle e anticonformista che ama spassionatamente l’hard-rock, l’alcool e la sua ragazza cade vittima di un incidente sul lavoro e deve sottoporsi ad un trapianto della pelle sul volto. Quando ritorna de-figurato al suo paese si deve confrontare all’ostracismo di tutta la piccola società che lo circonda. Il suo aspetto mostruoso diventa così l’occasione per smascherare la meschinità e l’ipocrisia dei suoi concittadini che, se da un lato si sacrificano in tutti i sensi per costruire una gigantesca statua del Cristo, sono incapaci di accogliere con comprensione ed un minimo di umanità il “mostro” Jacek fra di loro. Ispirato in parte dalla costruzione nel 2010 di una statua smisurata del Cristo nel villaggio di Swiebodzin, il film intende criticare il nazionalismo e il cattolicismo oltransista polacco ma lo fa in una maniera monolitica, la sua tesi si costruisce su un contrasto fisico e morale in bianco e nero e i diversi personaggi si riducono spesso a delle mere caricature che più che servire finiscono per inficiare il proposito critico della regista.

Una bella sorpresa in seno al Palmarés, hanno costituito invece i due film sudamericani in concorso quest’anno: l’Orso d’Argento per la Sceneggiatura è stato attribuito a Museo del messicano Alonso Ruizpalacios, mentre Las Herederas del paraguayano Marcelo Martinessi ha ottenuto due premi; l’ambito Premio Alfred Bauer per il suo apporto artistico innovativo e il premio per la migliore interpretazione femminile, conferito alla splendida Ana Brun.

Con Museo, Alonso Ruizpalacios che si era già fatto conoscere alla Berlinale con il suo bellissimo film d’esordio Güeros, vincendo nel 2014 il premio per la migliore opera prima, ha confermato il suo talento costruendo una vicenda complessa, sorprendente e piena di verve ispirata ad un fatto di cronaca: il furto compiuto nel 1985 da due ragazzi di vari oggetti precolombiani dal valore inestimabile nel Museo Nazionale di Antropologia di Città del Messico. Il regista riesce a mettere in scena con grande maestria, senso del ritmo e un sottile ma melanconico senso dell’humor una storia realmente accaduta che diventa la tela di fondo per un affresco della società messicana, con tutti i suoi dilemmi, irrisolti fino al giorno d’oggi. Il malessere e il desiderio di riscatto dei suoi due ingenui protagonisti – portati allo schermo con brio e sensibilità da Gael García Bernal e Leonardo Ortizgris- rispecchiano l’anelito profondo e le contraddizioni sociali e storiche di tutto un popolo.

Las Herederas di Marcelo Martinessi ci propone invece una prospettiva insolita sulla società uruguaya confrontandosi con un soggetto -l’omosessualità femminile- ancora profondamente tabù nel paese. Martinessi riesce a descrivere con pennellate precise l’ambiente della grande borghesia in declino in cui vive, con la sua compagna di sempre, Chela, una donna di mezza età incapace di affrontare la cruda realtà che la circonda. Il pregio principale del film è quello arrivare a costruire i suoi personaggi in profondità attraverso una scrittura rigorosa ed attenta ad ogni minimo dettaglio e ad una messa in scena sobria che si avvale della luce per sottolineare, di volta in volta, i cambiamenti di ambiente e di stato d’animo. Come la personalità della protagonista Chela, interpretata a fior di pelle e con una finezza straordinaria da Ana Brun, così la storia stessa evolve lentamente per sbocciare in un sorprendente finale catartico.

Un’altra presenza ampiamente meritata nel Palmarés della Berlinale di quest’anno è stata quella di Wes Anderson, ricompensato con l’Orso d’Argento per la Miglior Regia, per Isle of Dogs un piacevolissimo film di animazione in cui il regista ha fatto nuovamente prova di un’inventività debordante. Isle of dogs, un’isola immaginaria dove vengono esiliati tutti i cani della città giapponese di Megasaki diventa una metafora della diversità, dell’esclusione e dell’intolleranza. Nonostante le frequenti involuzioni nella struttura narrativa e le sue assidue digressioni, la potenza dell’universo visuale del film, la sua atmosfera straniante e magica, la ricchezza delle trovate di messa in scena ed un cast eccezionale di attori che prestano la loro voce ai personaggi del film (Edward Norton, Bill Murray, Jeff Goldblum, and Bob Balaban, Bryan Cranston, Scarlett Johansson, Greta Gerwig e Tilda Swinton) fanno di Isle of dogs una delle più belle riuscite della filmografia di Wes Anderson.

Un ulteriore premio, a mio parere, ampiamente giustificato, è stato quello della migliore interpretazione maschile attribuito dalla giuria a Anthony Bajon, giovanissimo attore francese, protagonista di La prière di Cedrik Cahn. Indossando il ruolo di Thomas, un ragazzo che cerca di liberarsi della sua tossicodipendenza integrando un gruppo di terapia in alta montagna basato sulla preghiera ed il lavoro in alta montagna, Anthony Bajon, è riuscito a creare con la sua interpretazione estremamente intensa un personaggio a tutto tondo, forte e straziante che domina il film dalla prima all’ultima scena.

Stupefacente invece è stato il verdetto della giuria per un film che, chi scrive, considera un capolavoro: Dovlatov di Alexey German Jr, è partito con un premio secondario, l’Orso d’Argento per le scenografie e costumi. In quello che può essere visto come un vero e proprio un tour de force estetico, etico e politico Alexey German Jr ha ricreato una settimana della vita dello scrittore dissidente Sergei Dovlatov, prematuramente scomparso in esilio a New York nel 1989. Più che una biografia nel senso stretto del termine, Alexey German Jr, immagina e costruisce un mondo reale scomparso per sempre immergendolo in un’atmosfera di realismo poetico, precisa e concreta ma intrisa di un sentimento struggente di nostalgia, del dolore di occasioni perdute, di talenti sprecati, di tante vite spezzate dalla politica sovietica.

Dovlatov diventa la nostra guida nella Leningrado dei primi anni settanta, trascinandoci in un mondo di artisti, scrittori e musicisti che cercano con ogni mezzo di sopravvivere, di creare e di riuscire a circuire i dettami ideologici dell’autorità sovietica e la sua censura. Mesto ma pieno di passione, struggente eppure ironico, l’universo di Dovlatov e dei suoi compagni viene descritto dal regista in un continuum di piani sequenza magistrali, eleganti ed eterei che si fondono con le parole e le discussioni senza fine dei personaggi, sempre in movimento, alla ricerca di una via d’uscita, di una speranza, o forse semplicemente di un’illusione. Impossibile non intravedere in filigrana un aspetto autobiografico in questo film che s’ispira certamente anche alla vita del padre del regista Aleksei Yuryevich German, che ha dovuto scontrarsi più volte con le autorità per potere fare i suoi film, impossibile anche non discernere un rimando diretto all’attualità odierna del paese.

I grandi assenti di questo palmarés sono stati, senza ombra di dubbio, i quattro film tedeschi in concorso: Mein Bruder heißt Robert und ist ein Idiot di Philip Gröning, Transit di Christian Petzold, In den Gängen di Tomas Stuber e 3 Tage in Quiberon di Emily Atef che testimoniano tutti della vitalità e della diversità del cinema made in Germany.

Vorrei menzionare in particolare Mein Bruder heißt Robert und ist ein Idiot di Philip Gröning, un’opera esigente, difficile, particolarmente impegnativa ed profondamente inquietante. Philip Gröning si è spinto nel film ben oltre le convenzioni morali per offrirci uno studio entomologico, meravigliosamente preciso e privo di pregiudizi sull’humus violento che cela, nelle sue pieghe, più profonde l’anima umana. In 48 ore, il rapporto, a prima vista anodino, fra due gemelli, un fratello e una sorella, si tinge man, mano di colori sempre più cupi, scivolando  verso l’entropia assoluta. Senza compromessi, luminoso come un giorno d’estate, tagliente come un bisturi, sensuale e coraggioso Mein Bruder heißt Robert und ist ein Idiot ci ingaggia in un dialogo assoluto, ci scuote e ci risveglia, insegnadoci di nuovo a guardare.

 

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