Il canto dolente di una donna, in una lingua antica e rara, risuona nel buio della sala. Parole di una forza inenarrabile sorgono dal fondo dello schermo: la donna racconta che è stata violentata mentre era incinta, accanto al cadavere del marito. Poi la voce tace e l’immagine prende forma: vediamo il volto pieno di rughe di una vecchia sul suo letto di morte. Un’altra voce, un altro canto tenta di risponderle, di confortarla, è quello Fausta, sua figlia, una ragazza dall’enigmatica bellezza.
Così inizia La teta asustada di Claudia Llosa, premiata con l’Orso d’Oro alla 59esima edizione della Berlinale, ci immerge subito in un mondo lontano, sconosciuto, segreto e atavico: quello della comunità quechua in Perù. La storia di Fausta, protagonista del film, prende il suo avvio durante la guerra civile fra le truppe del governo e la milizia del Sentiero luminoso. In questo periodo di terrore, durato dal 1980 al 2000, un numero imprecisato di donne è stato violentato, principalmente nelle comunità rurali dove risiede la popolazione autoctona. Il trauma è stato così profondo da passare, secondo la tradizione popolare, alla generazione seguente attraverso il latte materno. Questa patologia viene designata con l’espressione: la teta asustada che significa “il seno spaventato”. Fausta ne soffre e vive in uno stato perenne di angoscia e di insicurezza. Per impedire che il male che aveva colpito sua madre possa colpire anche lei, introduce una vera “barriera” nella sua intimità di donna. La ragazza, infatti, introduce nella propria vagina una patata e il tubercolo inizia a germogliare.
Il film inizia con la morte della madre e segue le peripezie della ragazza nel suo sforzo di seppellirla, con tutto l’onore dovuto, nella loro terra natale. L’impresa si rivela difficile; il costo del trasporto del corpo dalla periferia di Lima, dove le due donne si sono trasferite per vivere con lo zio Lucido, organizzatore di cerimonie nuziali, fino alla loro lontana provincia, è molto elevato. Questo compito di amore filiale si trasforma in un tragitto difficile e periglioso, un vero viaggio iniziatico per Fausta che ne uscirà più forte, adulta, finalmente in pace con il passato e in armonia con il suo corpo di donna.
La teta asustada ci immerge in un mondo crudele e poetico dove vita e morte, malattia e bellezza, speranza e paura si danno la mano; è un film duro e liberatorio allo stesso tempo, autentico e profondamente sentito. Secondo lungometraggio di Claudia Llosa, che si era già fatta notare tre anni fa con Madeinusa, La teta asustada, premiato a Berlino anche dalla Fipresci, è il primo film peruviano ad avere mai participato al concorso internazionale del festival. La teta asustada non è un’opera facile, prova ne è che fino al giorno prima della premiazione non aveva ancora trovato dei distributori. Anche se filmato con pudore, la coesistenza di aspetti macabri e momenti di gioia che caratterizza il mondo del film, può essere sconcertante per uno spettatore europeo; ciò nonostante Claudia Llosa ha dimostrato di sapere associare il mostruoso e il grottesco con la poesia e la grazia, trasportandoci in un mondo magico di saggezza ancestrale. Più che sul potere esplicativo della parola, l’universo del film si fonda sulla forza emozionale dei simboli.
Punto focale de La teta asustada è un archetipo stratificato, molteplice ed ambivalente: “La patata viene utilizzata come uno scudo protettore da Fausta ma, in primo luogo, è un emblema molto forte dell’identità peruviana, è il simbolo stesso della terra madre, della forza delle radici, della fertilità; allo stesso tempo essa permette di comprendere l’idea del trauma, del peso di un passato che vorremmo nascondere, dimenticare ma che finisce sempre per riapparire”, ha spiegato Claudia Llosa alla stampa.
Una trama complessa di associazioni attraversa il film: così la terra, che rappresenta la vita ma anche il dolore, rimanda all’oceano, luogo di purificazione e di oblio. La patata rinvia alla perla, a quanto di più prezioso nasce all’interno di una conchiglia.
Fausta rinchiude in sè il dolore e la sofferenza del corpo ma anche la forza dello spirito, la bellezza della creazione in una complementarità che rispecchia la concezione andina del cosmo. Il film è uno studio quasi antropologico della comunità quechua in bilico fra la rivendicazione della sua identità e la necessità di integrarsi nella vita “occidentalizzata” dei centri urbani. Attraverso l’uso del colore e della luce e di una messa in scena curata nei minimi particolari Claudia Llosa riesce a ricreare questi due universi non solo socialmente, ma anche emotivamente agli antipodi.
Alle tinte chiare e sabbiose dell’esterno corrisponde l’interno della casa di Ada, immerso nella semi-oscurità, dominato da colori bluastri, plumbei. Questo contrasto è enfatizzato anche dalla messa in scena: il passaggio dall’esterno all’interno della dimora padronale è significativo. Sulla piazza del mercato, colorata, vivace, piena di gente e di vita, si apre un enorme portale: chi passa questo varco si trova improvvisamente in un universo silenzioso, buio, lussuoso e solitario. La casa di Ada è presentata come un enorme mausoleo, in cui abita una sorta di donna-vampiro, un’artista fredda e senza ispirazione il cui patto è una perla per una canzone, alludendo ad uno sfruttamento che non è solo fisico ma anche spirituale.
La descrizione della comunità quechua è degna di nota; Claudia Llosa riesce ad amalgamare perfettamente alla finzione degli aspetti di vita reale, dal valore documentario. Un notevole lavoro di ricerca e un cast composto per l’ottanta per cento di attori non professionisti contribuiscono a conferire un sapore di autenticità alle molte scene di colore locale del film. Sono dei momenti buffi e sconcertanti come le visite presso i diversi commercianti di casse da morto, o patetici e commoventi come i matrimoni “popolari”. Allestite nel bel mezzo di uno spiazzo desertico, le festività sono ritmate dalla voce di un maestro di cerimonie che impartisce ordini da un altoparlante. La gioia stenta spesso a manifestarsi: “Sorridete, sorridete!” grida la voce. Spesso filmate in piani molto larghi, queste scene sorprendono per la bellezza dei loro contrasti cromatici: il bianco e nero degli sposi e i vestiti variopinti degli invitati risaltano come delle gemme sulla sabbia del paesaggio circostante, arido e brullo. La regista crea un inventario quasi etnografico di immagini indimenticabili: le foto di famiglia davanti a dei teloni variopinti di tramonti tropicali, il lungo strascico della sposa decorato di palloncini colorati, il corteo degli invitati che avanzano ballando e trasportando i loro regali, la danza all’aperto nel recinto improvvisato da un cerchio di sedie.
Lo schermo è indubbiamente dominato dalla presenza di Fausta, personaggio complesso, introverso, segreto, fragile ma determinato allo stesso tempo. Magaly Solier, scoperta per caso qualche anno fa da Claudia Llosa in un villaggio andino e diventata in seguito la protagonista del suo primo lungometraggio, rivela qui tutto il suo talento. Attrice
piena di fascino e di carisma, Magaly Solier impone la sua impronta a tutto il film, con la sua grazia schiva ed enigmatica incarnando nelle minime sfumature il carattere complesso ed ermetico di Fausta e cantando le bellissime canzoni in quechua di cui è anche la compositrice.
La teta asustada ha ampiamente meritato la sua ricompensa; è un film complesso che tocca dei problemi politici e sociali, denso di emozioni, esteticamente affascinante.
La storia di Fausta, giovane donna traumatizzata alla conquista della sua libertà interiore, ci insegna che è possibile trasformare il dolore in speranza.
Premetto che non sono un cinefilo!Non saprei come confutare le critiche aspre ed a mio parere sterili, che gli aspetti tecnici relativi alla realizzazione di questa pellicola hanno scatenato in Perù e altrove.
Voci di giornalisti molto potenti e molto “bianchi”, si sono levate contro “questo bruttissimo film”, che avrebbe infangato l’immagine del Perù,consegnando all’Occidente una realtà atavica ed immaginaria!
La stessa pellicola, sarebbe poi stata(sempre a detta dei sopramenzionati giornalisti),un’esca per “berlinesi e catalani perversi, che ,pieni del senso di colpa tipicamente europeo, si sarebbero bevuti ogni fandonia raccontata nel film”!Davvero non saprei come rispondere all’acredine dimostrata da costoro; purtroppo sono parte di quell’elite razziale(vera o presunta), che in nome di una favoleggiata “pureza de sangre”, ammorba da cinquecento anni L’America Latina,discriminando in ogni modo possibile chiunque non discenda dagli spagnoli o comunque dagli europei.
Non è difficile comprendere come a questa gente non sia andato proprio giù il fatto che “La teta asustada” sia stata nominata all’ OSCAR!Per persone come loro, l’apologia di una lingua come il Quechua(parlo con cognizione di causa), bellissima e musicale, suona stonata; così come stonato suona il mondo magico evocato da Fausta e dalla sua comunità!Non mi sorprende che le voci di questi razzisti ammorbino le pagine dei quotidiani, l’erba cattiva è difficile da estirpare.
Verrà forse un giorno nel quale i problemi di classe e di “razza“dell’America Latina vedranno la loro soluzione, nel frattempo mi godo il canto di Fausta, le sue bellissime parole in lingua quechua ( nella sua variante parlata ad Ayacucho),e i tratti del suo viso bello come il sole dell’alto Perù.
Bel film.
Ermanno Dodaro