Mammoth di Lukas Moodysson, presentato in concorso domenica alla Berlinale, ha lasciato più d’uno spettatore perplesso. Il film si muove fra il melodramma e la denuncia sociale senza riuscire né a commuoverci né a convincerci. Il regista svedese era diventato famoso nel 1999 con il suo primo lungometraggio Fucking Amal, ritratto di una ragazzina che scopre ed accetta la sua omosessualità, ambientato in una piccola città di provincia. Si trattava di un film sobrio, autentico e toccante.
Mammoth è un film completamente diverso rispetto ai predenti lavori del regista. Nonostante il titolo metaforico che rimanda alle origini dell’umanità, la vicenda si svolge nel mondo di oggi e vuole essere una sorta di denuncia delle ingiustizie economiche e sociali che esistono fra il mondo occidentale e i paesi del terzo mondo. In Mammoth Moodyson si serve del modello del nucleo famigliare per sondare la realtà di questi due mondi a prima vista così lontani, ma di fatto strettamente connessi attraverso il fenomeno della globalizzazione. Sul principio non ci sarebbe nulla da obiettare se non fosse che il regista costruisce il suo film servendosi, dall’inizio alla fine, di tutti i cliché possibili immaginabili su questo soggetto.
La trama è inutilmente tortuosa: Leo, giovane e ricchissimo inventore di un sito internet, vive con la moglie Ellen, chirurgo, e la sua figlioletta Jackie in un magnifico loft a New York. Con loro abita anche Gloria, la tata, una donna filippina che lavora negli Stati Uniti per potere provvedere ai bisogni di sua madre e dei suoi bimbi, Salvador e Manuel, che si trovano a Manila. Leo deve recarsi per alcuni giorni in Tailandia per firmare un lucroso contratto d’affari: mentre lo vediamo in volo verso l’oriente su un jet privato seguiamo le vicende di Ellen rimasta a New York. La giovane donna soffre a causa del suo lavoro stressante e delle sue difficoltà di madre. Nel frattempo, attraverso dei montaggi paralleli a ripetizione, partecipiamo anche alla vita dei due bimbi di Gloria in un quartiere povero di Manila: li vediamo andare a scuola, dormire di notte l’uno accanto all’altro e telefonare alla loro mamma. In attesa di firmare il contratto Leo si annoia tutto il giorno solo nel suo hotel di lusso e decide di passare alcuni giorni su una delle isole vicine. Padre affettuoso e marito modello anche lui telefona spesso alla moglie lontana. In un primo tempo sembra essere veramente indifferente alle molte tentazioni che il luogo offre, ma alla fine finisce anche lui per soccombere alle proposte di una bellissima prostituta locale. Intanto a New York Ellen lotta in ospedale per salvare la vita di un bimbo pugnalato da sua madre mentre a Manila Salvatore, il figlio maggiore di Gloria, cerca lavoro per contribuire con il suo salario al sostentamento della famiglia e accelerare così il ritorno di sua madre in patria.
Si arriva così al culmine della storia: mentre Ellen a New York, nel corso di un’ultima e drammatica operazione, non riesce a salvare il bimbo, a Manila il piccolo Salvatore nella sua ingenua ricerca di lavoro finisce per cadere nelle mani di un turista pedofilo che lo violenta e lo lascia in fin di vita. Alla fine gli eventi sembrano, nonostante tutto, riprendere un corso migliore. Leo dopo avere promesso alla ragazza tailandese, anch’essa madre di una piccola bimba, il cielo e la terra, la abbandona di primo mattino e fugge in preda al rimorso di avere tradito sua moglie. Decide di firmare immediatamente il contratto, anche se ciò significa perdere un paio di milioni, e riparte, carico di magnifici regali, per New York. Gloria viene intanto avvertita che suo figlio giace ferito in ospedale; anche lei pianta tutto in asso e parte di notte per recarsi al capezzale del suo bimbo. Nell’ultima scena del film vediamo la nostra famigliola di nuovo felice e serena riunita in un grande abbraccio. Tutto è bene ciò che finisce bene!
Alla proiezione stampa i titoli di coda sono stati accolti da una cascata di fischi: Mammoth è un film piatto, banale ed estremamente macchinoso che affronta una serie di soggetti seri e dolorosi in modo superficiale e veramente poco credibile. La scelta di rappresentare la famiglia “tipo” del mondo occidentale attraverso una coppia di genitori giovanissimi, ma già all’apice del successo professionale è assolutamente incongrua. Ancora più esasperanti risultano i dialoghi di cui si prevedono immediatamente le battute, scontate e triviali. Anche i personaggi sono intrappolati in modelli di comportamento stereotipati e mancano di un vero approfondimento psicologico. La colonna sonora del film, chiamata a potenziare il pathos della vicenda, appesantisce ulteriormente il ritmo già eccessivamente incalzante e frammentario della narrazione. Irritante risulta l’abuso costante di un montaggio parallelo che ci travolge nell’accalcarsi vertiginoso degli eventi senza riuscire a creare un vero nesso fra le tre vicende che ci vengono narrate.
Mammoth sembra dovere molto a Babel di Alejandro Gonzàles Inàrritu sia nello stile iperrealista che nel trattamento della sceneggiatura in cui varie storie parallele si incrociano grazie alle leggi misteriose di una fatalità cosmica che fa si che un’azione qualsiasi in un determinato luogo possa scatenare un evento imprevedibile in un altro luogo della terra. Mammoth che avrebbe voluto essere, secondo le intenzioni del regista, un film-denuncia sui diritti dell’infanzia nel mondo, è un prodotto tipico proprio di quello status quo e di quella società che intende criticare.