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MIS DOS VOCES di LINA RODRIGUEZ

INTERVISTA PARTE SECONDA

Mis dos voces si sviluppa in un modo molto organico, creando un tessuto di relazioni e di rimandi.

L’idea era effettivamente quella di creare una specie di intreccio, di amalgama o piuttosto un coro di voci dove, a volte, spicca una sola voce, come la voce di una solista per poi fondersi di nuovo in un insieme polifonico.  Sento che questa esperienza dell’emigrazione sia qualcosa che ci tocca tutti e questo coinvolgimento mi sembra molto bello. Ho cercato un modo per esprimere formalmente il mio interesse che non era quello di definire, chiarire, categorizzare ma piuttosto quello di tessere un insieme di esperienze in cui tutti possiamo riconoscerci e sentirci partecipi. Rispetto ai volti delle donne ho pensato la stessa cosa.  Amo il cinema e l’immagine di un volto è certamente un elemento cruciale in ogni racconto cinematografico ma quello che a mi interessa di più è cercare dei modi per articolare, esternare l’intimità che è ineffabile, indefinibile. Le immagini e i suoni nel cinema ci permettono di non definire le cose in assoluto, ma di suggerirle. Volevo trovare un modo per tracciare i percorsi di queste donne, senza ingabbiarle in una definizione e senza precludere il loro divenire, il loro cambiamento nel tempo.

Ci sono momenti in cui le immagini sono più forti e altri momenti in cui le voci prendono il sopravvento. Alla fine le immagini mentali create dai racconti delle donne le immagini mostrate sullo schermo si fondono….

Fondamentalmente quello che volevo cercare di creare era proprio questo. Stiamo parlando di un luogo, il Canada, a partire dal quale si evocano dei luoghi lontani; infatti c’è una geografia fisica e ci sono anche delle geografie emozionali. Credo che il film voglia tracciare una sorta di geografia emozionale. Penso che sia interessante quello che dicevi prima e cioè che non si tratta di parlare “di”, ma di parlare “attorno” alle protagoniste inglobando lo spazio, fisico e mentale, intorno a loro. Non sappiamo esattamente dove si trovino; quindi l’immagine parla di un luogo e la voce parla di un altro. Poi l’incontro dell’immagine con la voce e la banda sonora, crea un altro spazio. Quindi ci sono molti spazi allo stesso tempo, molti tempi allo stesso tempo il che ha a che fare con questa realtà, con il fatto di vivere tra geografie diverse che fa parte della vita quotidiana dell’immigrato.

Nel film usi molte carrellate laterali, perché?

Il modo in cui le immagini sono inquadrate ha a che fare con lo spazio e il tempo e vuole coinvolgere lo spettatore nell’ intimità delle protagoniste.Mi sono servita delle carrellate per cercare di ritrarre, tracciare ed articolare le fibre del quotidiano. Anche nei miei film di fiction mi sono sempre interessata al piccolo, al domestico, agli oggetti di uso comune, a tutti quei dettagli che creano i nostri universi emotivi e fisici. I dettagli della nostra vita mostrano non solo come viviamo ma anche e soprattutto chi siamo.

Sono d’accordo, anche per me quei dettagli dicono tutto di una persona.

Come dicevo anche prima, ho cercato dei modi per ritrarre le mie protagoniste senza definirle completamente. Ovviamente il film propone un punto di vista, uno sguardo, una cornice, è innegabile. Le mie scelte formali sono abbastanza rigorose; c’è una strategia che parte dai dei primissimi piani, passa per una serie di carrellate laterali, per arrivare, solo alla fine, a mostrare i volti delle donne includendo brevemente anche le loro famiglie. Il film è costruito come se, gradualmente, si aprisse un po’ l’orizzonte dal vedere poco – all’inizio – al vedere di più verso la fine. La mia intenzione non era che alla fine del film la gente dicesse: conosco la sua storia, so cosa le è successo, so chi è. Il mio è un approccio, un metodo che include il pubblico per riempire gli spazi, per riempire le lacune.

Il tuo film ha due qualità che sembrano, a prima vista, contraddittorie; è frammentario e fluido allo stesso tempo. Le storie delle donne, tutto quello che sappiamo di loro è frammentario, perché una biografia è sempre frammentaria per definizione, ma il flusso narrativo, il ritmo è fluido.

Abbiamo girato Mis dos voces con una troupe estremamente ridotta. Io ero la regista e avevo le idee molto chiare sulla struttura formale del film ma ho lavorato con un direttore della fotografia che si chiama Alejandro Coronado, con il quale avevo già fatto due lungometraggi. Anche Alejandro è messicano. Il linguaggio visuale del film lo abbiamo trovato insieme; sapevamo come girare certe cose perché avevamo sempre visitato le case delle protagoniste prima delle riprese. Per il suono ho lavorato con un’amica che è anche regista: Sofía Bohdanowicz. Volevo avere una donna accanto a me e la sensibilità di qualcuno che potesse esplorare lo spazio attraverso la sua prospettiva. Sofia ha registrato anche un sacco di suoni sui quali ho poi lavorato ulteriormente con la sound designer, una collaboratrice di lunga data e con il mio compagno Brad Deane che e anche il co-prodotto del film.

Potresti parlarmi del montaggio?

Abbiamo montato insieme, Brad e io. Anche Brad se è molto vicino ai miei film come partner emotivo e anche come produttore, a volte ha anche una certa distanza. Approfitto molto di questo rapporto per lavorare con qualcuno che è più vicino, ma un po’ più lontano di me. Parte della strategia era di montare il suono e l’immagine separatamente. Abbiamo cercato di mettere insieme sequenze di immagini che abbiamo filato o corretto attraverso gli spazi e io ho fatto il lavoro di filare le storie perché erano tutte in spagnolo. Abbiamo iniziato a mettere insieme blocchi di immagini e suoni e poi abbiamo iniziato a far girare blocchi di immagini e blocchi di suoni e abbiamo lavato insieme. Per esempio, abbiamo filmato prima le immagini e poi sono andato con la sola Sofia a registrare il suono alla telecamera. Eravamo seduti sul letto o nelle stanze di Anne, Marínela e Claudia, loro tre parlavano e Sofía non parla spagnolo, quindi era davvero uno spazio dove loro parlavano con me. Tutte queste conversazioni, che sono le voci del film, sono state registrate completamente separatamente. Qualche tempo dopo Brad iniziò a conoscere la profondità delle conversazioni. Quindi il montaggio è stato interessante perché lui era un po’ più vicino alle immagini e io ero vicino a tutto. (ride) Quella distanza ci ha aiutato a cominciare a tessere, a decidere quali immagini potevamo contrappuntare con quali suoni per tessere quel coro o quella trapunta.

Chi sono i registi che ti hanno ispirato? Quali sono le sue referenze?

Trovo il linguaggio cinematografico stimolante e unico nel senso che si può lavorare con il tempo e lo spazio. Personalmente sono interessato a lavorare con gli attori, ho anche film che sono tra virgolette “sperimentali” dove lavoro con paesaggi e da solo.  Quindi penso che i miei interessi cinematografici siano vari e abbastanza ecclettici. Amo i film classici di Lubich, ma anche registi come Fassbinder o Godard. Hou Hsiao-Hien, Lucrecia Martel, Chantal Akerman, Bresson. E penso anche di essere sempre alla ricerca di altri riferimenti; per esempio in Colombia c’è molto movimento, c’è una comunità di cineasti che fanno film anche fuori dalla Colombia, intorno alla Colombia. Camilo Restrepo, Felipe Guerrero, ci sono nuovi registi. Penso che sia importante cercare di tessere una comunità, qualcosa che non sentivo quando iniziavo a fare film, come se si potessero avere dei riferimenti di persone contemporanee che facevano film, ma io cerco di aprire la mia esperienza a chiunque.  C’è una regista colombiana che vive a Bruxelles, Juanita Onzaga. Penso che ci siano diverse persone che pensano e ripensano attraverso il cinema e sono interessato a loro. Ma ci sono anche pittori che mi ispirano.

Lina, andrai a Berlino?

In questo momento è tutto molto folle e complicato, ma l’idea è quella di andarci! Quindi questo è il mio piano: voglio esserci, ci saremo! (ride) Beh, come sappiamo, tutto cambia ogni cinque minuti in questo periodo pieno di incertezza. Ma il mio produttore Brad, due delle donne, Ana e Claudia, verranno e ci sarà anche Sofia, che ha curato il suono.

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