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MIS DOS VOCES di LINA RODRIGUEZ

INTERVISTA PRIMA PARTE

Vorrei chiederti cosa ti ha spinto a fare questo documentario che mi ha toccato profondamente. Il soggetto è nato dalla sua esperienza personale?

Per me, fare film in generale significa creare un ponte, un punto d’incontro con altre esperienze. Parlare di una molteplicità di voci e di esperienze, della simultaneità dello spazio e del tempo in cui vivono gli immigrati non riflette solo la situazione specifica di questo gruppo sociale ma, in un mondo globalizzato, rispecchia in generale il nostro modo di vivere.  

Per questo trovo molto importante il fatto che tu ti sia collegata al film anche ad un livello personale. Io sono arrivata in Canada più di 20 anni fa per studiare cinema. La mia era senza dubbio una situazione privilegiata, nel senso che lasciare la Colombia è stata per me una scelta e non una necessità dettata da questioni politiche o economiche. La cosa interessante in tutto questo processo è che quando sono andata a studiare in Canada non ho mai capito che stavo veramente lasciando la Colombia per sempre, non avrei mai immaginato che questo sarebbe stato, in un certo senso, l’inizio del mio esilio.

Potresti parlarmi del tuo percorso creativo?

 In Canada ho incontrato il cinema. Per me era importante trovare un mio spazio dal quale parlare, osservare il mondo ed elaborarlo attraverso la mia esperienza. I miei film precedenti a Mis dos voces sono stati tutti girati in Colombia. Ho iniziato a fare cinema in modo indipendente, con pochissimi mezzi. Per questo all’inizio ho sviluppato una metodologia di lavoro dettata principalmente dalla precarietà e dalla necessità di lavorare in modo indipendente. Penso di aver iniziato a fare film in Colombia, perché probabilmente inconsciamente volevo riconnettermi con il mio paese natale, ecco perché nei miei film di “fiction” ci sono mia madre e mio padre. Mis dos voces è il mio primo film girato in Canada. Questa situazione di essere come ‘sospesa’ tra queste due geografie fa parte della mia realtà. Il cinema mi dà uno spazio per pensare ed elaborare il mondo intorno a me. C’è una parte inconscia nel processo creativo che mi sfugge per cui non sono in grado di spiegare completamente l’origine dei miei film se non dicendo che nascono da un bisogno o da un desiderio, una domanda, da una curiosità. Il mio cinema sorge da un fiume inconscio di emozioni e dalle mie esperienze, ma anche da interessi che hanno a che fare con la forma, cioè con il modo  in cui queste idee possono venire tradotte nel linguaggio cinematografico.

Nel caso di Mis dos voces dire che il film è nato da un lato dalla necessità di affrontare questa sensazione di disagio che proviene nella mia vita dal fatto di essere presa fra due luoghi, due geografie fisiche e mentali; quella del mio paese d’origine e quella del mio paese d’adozione ma anche dal desiderio di esplorare questo spazio ‘fra’ le due geografie che mi sembra un territorio particolarmente fertile per pensare l’esistenza e l’identità. Nella mia vita reale sono partita dalla Colombia per andare in Canada mentre nei miei film, finora, ero andata dal Canada in Colombia, con Mis dos voces torno, cinematograficamente parlando, in Canada. Non ci avevo mai pensato, fino a poco fa ma, in un certo senso, direi che con questo film ho iniziato veramente a pensare e vedere me stessa come un’immigrante e a rendermi conto di dovermi confrontare con questa condizione.

Da un punto di vista formale nel tuo film c’è una disgiunzione costante fra quello che ci raccontano le voci e quello che ci mostrano le immagini. Potresti spiegarmi il perché di questa scelta?

Descrivendo la tensione che esiste fra l’essere ubicati in un luogo e l’essere dislocati, sradicati, il movimento del film è un invito a trovare il proprio posto nel mondo. Il contrappunto tra l’immagine e il suono riproduce questa tensione in modo che lo spettatore stesso possa sentirsi a momenti in un luogo preciso, per poi perdere l’orientamento senza sapere dove e con chi si trovi. La mia intenzione era quella di mostrare che un immigrato possa sentirsi in un dato momento ancorato in uno spazio dove si sente connesso e il momento dopo non esserlo più.

In Mis dos Voces hai preso la decisione radicale di non mostrarci i volti delle tre donne protagoniste fino alla fine. Quali sono state le ragioni che l’hanno spinta a prendere questa decisione di mostrarci le voci senza i volti?

Un’altra ragione per cui Mis dos voces è nato è stato il mio incontro con Claudia, che è una delle tre donne che vediamo nel film, ad un festival dove stavo presentando Mañana a esta hora, il mio secondo film di finzione. Claudia è un Immigration Settler in Canada, il suo lavoro consiste nell’’accogliere ed aiutare i nuovi arrivati con consigli di ogni sorta. Ho chiesto a Claudia di aiutarmi con il suo feedback sulla sceneggiatura di un film di finzione che sto finendo in questo momento, So much tenderness, perché avevo molte domande sul processo d’immigrazione in Canada. Mi sono resa conto di quanto il lavoro di Claudia fosse interessante e appassionante e mi sono detta che sarebbe stato bello poterlo raccontare in un film. Sia come persona che come donna Claudia mi ispira molto; volevo celebrare la sua voglia di vivere e la sua generosità, come una vera e propria matriarca sa tessere delle relazioni creando una vera e propria comunità intorno a sé. Claudia mi ha presentato in seguito Ana e Marinela, da lì in poi abbiamo iniziato a conoscerci meglio e a montare il progetto della pellicola.

Claudia ti ha presentato solo Ana e Marinela o più donne e tu poi hai scelto loro?

In linea di principio volevo fare il film “su” Claudia. Poi mi sono resa conto che questo concetto di fare un film ‘su’ qualcuno andava rettificato.

Questa dimensione è molto interessante e ha molto a che vedere con la tua domanda sui volti, con il da “dove” si parla e con il come si parla. Invece di fare un film ‘su’ Claudia ho cercato di trovare un modo per fare un film ‘con’ Claudia. Quando le ho chiesto se poteva presentarmi delle donne che aveva aiutato nel loro processo di migrazione me ne ha presentato tre. C’era una boliviana, che non ha mai risposto alle mie telefonate e poi ho incontrato Ana e Marinela. Ho iniziato a parlare con loro molto prima di iniziare le riprese, prima di arrivare con una telecamera, per instaurare un rapporto di fiducia. Alla fine sono diventate tutte mie amiche. Con Marinela mi sono legata particolarmente e ho iniziato in seguito a coinvolgerla nei miei progetti; sul mio ultimo film di finzione è stata lei ad occuparsi del guardaroba degli attori e anche Claudia appare in una scena del film.Con il mio compagno Brad Deane, che è anche il mio produttore, cerchiamo sempre di tessere una comunità, in modo che un film non sia un mero ‘prodotto’ ma un modo per incontrare e conoscere delle persone, per sostenersi a vicenda, per prendersi cura l’uno dell’altro e per rispettarsi. 

Nel film le voci delle tre donne si susseguono e spesso sembrano fondersi e confondersi l’una con l’altra creando un leggero disorientamento. Qual’è il perché di questa scelta formale?

Anche se si tratta di un documentario, l’approccio formale del film era qualcosa che mi era molto chiaro. Potrei dire che è stato messo in scena, nel senso avevo le idee molto chiare sul come volevo girare il film. Il lavoro di un regista consiste, in fondo, sempre nel risolvere delle questioni legate allo spazio e al tempo. Quando si parla di spazio e di tempo è fondamentale chiedersi da “dove” si sta parlando e come si sta parlando. Mi spiego meglio: io mi sento personalmente coinvolta nelle esperienze descritte in  “Le mie due voci” ed è per questo che il film ha questo titolo. La problematica dello sradicamento, del bilinguismo e del viaggio di immigrazione sono cose che mi toccano da vicino ma la storia che racconto nel film è la mia; in questa prospettiva per me era molto importante situarmi di fronte a queste donne gommando la dimensione dell’alterità, cercando di incorporare il mio punto di vista nell’aspetto formale del film. Proprio per questo motivo, fin dall’inizio, ho deciso di separare l’immagine dal suono; non volevo che il mio compito fosse quello di categorizzare o definire in un qualsiasi modo le mie tre protagoniste. Inoltre in un film, quando si parla di qualcuno, si parla di lui nel presente. Ma, per esempio, oggi, due anni dopo le riprese, Marinela è una persona diversa rispetto a prima. Quindi non ho voluto definire nulla, non ho voluto mettere una faccia con un titolo che dice: Marinela, giardiniera. Quindi intenzionalmente, sì, ho voluto unire le tre voci che sentiamo.

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