Conversazione con Fred Baillif regista di THE FAM
vincitore della sezione Generation14Plus.
Con The Fam il regista svizzero Fred Baillif ha creato un’opera vibrante, in pieno movimento, toccante e tumultuosa come le vite delle sue giovani protagoniste, delle ragazze considerate ‘difficili’, traumatizzate da famiglie disfunzionali ed esperienze dolorose, che trovano rifugio in una struttura sociale che diventerà per qualche tempo la loro nuova casa-famiglia.
Il titolo del film si riferisce precisamente a quest’idea di un surrogato di famiglia.
In questo luogo le ragazze dovranno apprendere di nuovo a vivere con gli altri seguendo delle regole molto precise ed inizieranno pian piano a ricostruirsi.
Fred Baillif non cade nel tranello di un film buonista e moralizzante ma ci mostra con uno spirito di osservazione tagliente e un approccio sobrio e rigoroso come anche queste istituzioni non siano esenti da problemi e tensioni interne. Con grande maestria focalizza il suo sguardo sulla complessità dei rapporti umani in un luogo ad alta tensione e responsabilità dove gli educatori stessi sono al centro di controversie e conflitti sia fra di loro che nei confronti ai loro superiori. Il film ci offre lo spaccato di una società che prona l’assistenza sociale cadendo spesso, paradossalmente in quegli stessi errori che è chiamata a rettificare. Il film porta su delle questioni di ordine etico offrendoci al contempo il vivacissimo affresco di una gioventù tormentata in cerca di sé stessa. Lo straordinario lavoro svolto con le attrici ed gli attori non professionisti che hanno vissuto questo tipo di esperienza sulla propria pelle costituisce, senza alcun dubbio, uno dei punti forti della pellicola.
Fred Baillif ha generosamente accettato di condividere con noi i suoi pensieri nel corso di una lunga, cordiale conversazione telefonica.
Congratulazioni per il premio della Sezione Generation 14Plus! Posso immaginare che le cose siano in ebollizione …
Certamente! Questo premio mette in discussione il futuro. Ovviamente sono rimasto sorpreso, non me l’aspettavo, quindi ora, di fatto, sto pensando a come continuare.
Un premio molto importante, come questo, dovrebbe facilitare un regista mettendogli a disposizione più mezzi di produzione in futuro, ma potrebbe anche, è un’ipotesi, cambiare davvero un metodo di lavoro…
Sì hai assolutamente ragione ma, per il momento, mi sto chiedendo soprattutto come collaborerò con i produttori, con quale produttore lavorerò, quale scelta strategica dovrei fare e se voglio profilarmi a livello internazionale o se preferisco rimanere in Svizzera. Queste sono tutte domande che mi pongo.
Per quanto riguarda il mio metodo di lavoro, questo premio ha davvero confermato un qualcosa di profondo in me: il desiderio di lavorare con molta libertà, ha confermato che la mia intuizione era giusta e questo è meraviglioso perché è molto rischioso, artisticamente, lavorare come faccio io. Qui in Svizzera per me è stato sempre un problema montare dei progetti; molte persone, i responsabili del finanziamento in primo luogo, non possono dare un parere su un film che è scritto senza dialoghi. Ora spero di potere difendere meglio questo mio metodo creativo!
Ovviamente è molto problematico quando si lavora su un film documentario che per definizione viene realizzato in fieri, scrivere e presentare in anticipo delle note di produzione ben inquadrate e precise, come vuole l’industria, a meno che non si stia scrivendo della fantascienza!
Ho visto che tu sei uno dei produttori di The Fam. Con quale tipo di modello economico è stato montato questo progetto?
Si ritorna a quello che dicevamo prima. In linea con il mio metodo di lavoro, io parto dal principio che non posso scrivere i dialoghi così bene, così accuratamente, come la voce stessa dei miei attori nel momento dell’improvvisazione. Penso che mettendoli in situazioni concrete e lavorando con loro, diranno le cose in un modo veramente autentico che appartiene a loro e che io, come scrittore, non sarei in grado di scrivere. Ecco perché lavoro così; voglio che i dialoghi emergano dalla personalità profonda di ognuno dei miei protagonisti. In questo senso sarebbe completamente assurdo scrivere dei dialoghi. Ma, come ho detto prima, è impossibile finanziare un film se non si è scritto nessun dialogo, a meno che non sia un film muto! (ride) Quindi non avendo soldi, ho deciso di girare il film da solo con 20.000 franchi che avevo su conto per un altro progetto, ho usato questi 20.000 franchi per girare il film in due settimane. Dopo le riprese, ho lavorato con due produttori che sono stati assunti da me per cercare degli ulteriori fondi in modo da potere fare la post-produzione.
Potresti parlarmi dell’origine del film? Ho letto che tu stesso hai lavorato per qualche tempo come insegnante nelle strutture per adolescenti difficili, dei luoghi dove si vive e si lavora insieme. Vorrei chiederti come tutto ciò ha preso forma, trasformandosi da un’esperienza di vita in un progetto artistico.
L’inizio di questa avventura è avvenuto un po’ per caso. Subito dopo il movimento MeToo, ho incontrato diverse donne che mi hanno raccontato di essere state abusate sessualmente da loro padre, da loro zio o dal loro nonno, ed erano così tante che ho pensato: “non è possibile, questo soggetto mi perseguita, devo fare un film! “. Questa è stata la base. Poi, ho voluto lavorare con queste donne, le ho riunite, erano 5, di origini diverse ma non ha funzionato. Era impossibile lavorare insieme su questo argomento, era troppo delicato. Così ho conservato tutti i nostri scambi, mi sono ispirato a quello che hanno detto per la storia che avrei costruito dopo, ma in un altro luogo. Mi sono detto che se volevo affrontare queste questioni, forse piuttosto che rivolgermi a delle persone che sono così profondamente ferite, avrei dovuto di orientarmi verso un luogo diverso dove si potessero raccontare più facilmente le proprie esperienze. Per questo sono entrato in contatto con questo rifugio dove avevo lavorato come studente. Conoscevo già Claudia, che all’epoca, era la direttrice di questa struttura e che stava andando in pensione. Lei ha dato subito l’ok poi ne abbiamo discusso con i suoi superiori e anche loro hanno dato il loro accordo. In seguito abbiamo iniziato insieme a fare delle interviste con tutti i giovani che vivevano nella casa- rifugio e con i loro educatori. Questo è stato il primo passo.
Sono stati soprattutto gli incontri che avevo fatto prima con le donne violentate e poi le interviste che ho fatto alle ragazze della casa-rifugio che mi hanno convinto a fare un film principalmente basato sulle ragazze. In un secondo tempo le discussioni con Claudia mi hanno davvero portato a riflettere a tutti gli aspetti del sistema sociale che inquadra quest’attività. Un sistema che conoscevo bene per averci lavorato in passato. Il fatto che io non abbia più continuato a lavorare in questo settore non e fortuito; già all’epoca infatti ero molto scettico sull’idea di mettere dei giovani in una casa-rifugio e sulle regole che entrano in gioco nei nostri rapporti con le persone che dovremmo aiutare.
Nel film la descrizione di questo tipo di “sorveglianza” esercitata dagli educatori e il ricorso alla polizia in caso di problemi rivela un potenziale di violenza istituzionale ed è davvero molto sorprendente.
Questo approccio proviene sia da quello che mi ha detto Claudia che dalle mie esperienze personali. Abbiamo lavorato per due anni facendo regolarmente dei workshop d’improvvisazione con le ragazze della casa-rifugio mentre stavo finendo degli altri progetti. Alla fine di questi due anni grazie ai workshop e alle interviste ero riuscito a costruire una storia, con alcuni dialoghi, non molti. I dialoghi li ho proprio buttati via al momento delle riprese, tranne alcuni che sono importanti per far avanzare la trama di Nora. Questo processo è il mio metodo di lavoro.
Tutto è improvvisato, quindi non ci sono scene scritte durante le riprese. Ovviamente c’è tutto un metodo di direzione degli attori che ho sviluppato attraverso le mie varie esperienze e con il quale riesco ad ottenere un massimo di autenticità nella recitazione. Questo è il mio terzo film di fiction, ho sviluppato questo metodo ispirandomi al lavoro di Mike Lee, di Abdellatif Kechiche e di Laurent Canet in “Entre les murs“. Sono tutti e tre dei registi che lavorano sulla ricerca dell’autenticità nella recitazione. Quando vedo degli attori professionisti che recitano, che recitano troppo, per me è finita! (ride)
Questo metodo si basa su degli accordi che firmo con gli attori non professionisti, ci sono delle regole molto severe ma proprio queste regole ci permettono di avere una grande libertà. Per esempio, la mia prima regola è dire di agli attori: “è proibito prendersi per degli attori!”. Appena vedo qualcuno recitare dico subito: “Non recitate, non dovete recitare, restate voi stessi!”. Questa è una cosa che ripeto e ripeto a non finire!
Anche in un documentario classico, nel momento in cui c’è un obbiettivo piazzato davanti a un personaggio involontariamente scatta un meccanismo di messa in scena di sé stessi ….
È quello che ho notato anch’io, ma ci sono modi per evitare di cadere nel gioco d’attore ed è il mio lavoro assicurarmi che questo non accada. Il metodo principale è, come ti dicevo, attraverso un certo numero di regole che c’imponiamo e che abbiamo stabilito insieme. L’accordo che abbiamo stipulato, indica chiaramente i limiti etici del nostro lavoro: è assolutamente necessario che gli elementi della vita personale dei partecipanti non appaiano nel film. In altre parole, non ci deve essere alcun passaggio tra realtà e finzione, a meno che non lo vogliano loro stessi e che non lo chiedano esplicitamente. Alla fine possiamo dare loro la libertà di portare qualcosa di personale nel film ma questo è il limite che ci imponiamo, è la regola. C’è un altro elemento importante; abbiamo sviluppato un rapporto di fiducia a lungo termine, quindi i ragazzi si fidano di me e sanno che non li tradirò, che non li metterò in situazioni troppo inquietanti. Hanno sempre la possibilità di dirmi: “No, non voglio fare questo, o non voglio dire questo!” soprattutto perché scoprono la storia man mano che le riprese vanno avanti. Vale a dire che ogni giorno i protagonisti arrivano sul set e devono recitare una scena che non conoscono.
Quindi, concretamente, come il tuo metodo funziona sul set?
In effetti, si riduce a una cosa: Claudia per esempio, che non è un’attrice e che interpreta Nora, la direttrice della casa-rifugio nel film, è così incuriosita da ciò che sta per accadere, che diventa molto brillante!Poco prima di girare la scena, le do delle indicazioni, le spiego cosa succederà, le suggerisco delle cose e le dico: “Tu agisci davvero come vuoi e come puoi, sei libera“. So che la sceneggiatura si adatterà alla fine a ciò che lei suggerirà. Spesso abbiamo dovuto adattare il montaggio a cose che non erano previste nella sceneggiatura.
The Fam ci tiene con il fiato sospeso fino all’ultimo momento, ci intriga e c’è molta tensione in quello che vediamo. Immagino che il film sia stato scritto, in gran parte, durante il montaggio perché il film ha, fra l’altro, una struttura narrativa che non è lineare e che scopriamo tale alla metà della storia.
È così che ho scritto la sceneggiatura. Fin dall’inizio, ho scritto un film che era strutturato in questo modo: cioè, impostando una serie di ritratti e poi ritornando su ogni ritratto. C’era questa idea di una lettura non lineare… In seguito, ci sono state così tante sorprese durante le riprese che, ovviamente, il montaggio ha richiesto sei mesi di lavoro e ho dovuto provare e riprovare per trovare la forma giusta. Non ti nascondo che all’inizio ho montato il film in modo lineare. Onestamente, il film era buono, ma volevo comunque provare qualcosa di diverso, ed è vero che questa non linearità rafforza davvero la tensione. Sono contento di essere andato oltre il terreno battuto nell’editing, sono contento di avere scavato a fondo, come faccio con tutti i miei film.
Questa costruzione non lineare che si apre al non detto, crea una sorta di mistero…Qual è stato il motivo che è costato a Laura il suo lavoro? È stato lo schiaffo che ha dato alla mamma di Precious, o è stato qualcos’altro?
Beh, per me, perde il lavoro perché è scivolata, schiaffeggiando la madre di una ragazza che soggiorna nella struttura. È un atto inammissibile, non è negoziabile. Lo sa molto bene anche lei quando lo fa, credo. Attraverso questo personaggio volevo mettere in discussione questo tipo di rapporto di potere che esiste nella gerarchia istituzionale. La gerarchia è qualcosa che personalmente mi fa gelare il sangue, la odio! Racconto spesso che vengo dal mondo della pallacanestro, giocando ho imparato molte cose; ho imparato che anche se sei un leader, fai parte di un tutto. Il leader non è superiore, non è lì per imporre il suo potere agli altri ma per permettere agli altri di essere migliori. Questa è stata la mia scuola di vita per molto tempo ed è vero che mi ha segnato. Il cinema che faccio è molto libero, non siamo in un rapporto di potere. D’altra parte, purtroppo, con molti produttori, mi sono trovato di nuovo in un rapporto gerarchico e questo non mi andava bene!
La fotografia di The Fam è particolarmente fluida, mantenendo sempre la giusta distanza sa seguire con naturalezza anche quelle scene che si evolvono con una certa violenza, dove corpi si muovono in tutte le direzioni… Può parlarmi di questo aspetto del film?
Questa e la mia terza collaborazione con Joseph Areddy, il mio direttore della fotografia che ha gia al suo attivo vari documentari ma anche una serie di film di finzione. Durante il nostro primo progetto insieme ci siamo divertiti molto, nel secondo eravamo forse troppo classici e qui per The Fam abbiamo davvero discusso molto. Volevamo che la cinepresa fosse il più libera possibile, al punto che abbiamo illuminato alcuni luoghi per essere in grado di girare a 360° in modo che Joseph potesse camminare intorno agli attori ed essere, a volte, al centro stesso della stanza. Joseph conosce bene il mio lavoro, ha capito la mia tecnica d’improvvisazione e si è messo veramente al suo servizio. A volte è addirittura lui che si avvicina ad un’attrice e le chiede di ripetere qualcosa perché non l’ha capito bene. Joseph ascolta, sa esattamente cosa voglio, è davvero come un braccio destro per me. Fra noi due c’è un bel rapporto di amicizia e fiducia!
Qual è stata la tua più grande soddisfazione nel fare questo film?
Ti racconto un piccolo aneddoto: l’ultimo giorno di riprese, abbiamo girato una scena con Cacia, la ragazza che interpreta il personaggio di Noviña. Non è mai stata un’attrice, ovviamente come tutte le altre ragazze, ha avuto un’infanzia molto difficile e una vita molto complicata. La trovo molto forte, ha una vera rabbia in sé. Claudia, d’altra parte, è stata per molto tempo la direttrice della casa dove Cacia viveva e loro due si conoscono molto bene.
Quando abbiamo girato l’ultima scena in cui Laura, la direttrice, racconta a Noviña che sua figlia si e suicidata, Noviña ha le lacrime agli occhi. Ovviamente, la scena che abbiamo girato è molto più lunga, l’abbiamo tagliata, perché ho pensato che le lacrime di Noviña fossero molto più forti del lungo dialogo fra loro due. Comunque, finiamo le riprese, Cacia è molto commossa, abbiamo tutti le lacrime agli occhi… A questo punto chiedo a Cacia come si sente, perché è quello che facevo spesso, non essendo attori professionisti, mi prendevo cura di loro dopo le scene difficili, e lei mi dice: “Bene! Sono orgogliosa di me stessa! “Claudia, che era lì, l’ha presa in braccio, ha guardato la telecamera che ancora girava e ci ha detto: “È incredibile, conosco Cacia da quando aveva dieci anni, e non l’ho mai sentita dire che era orgogliosa di se stessa! ” Ecco, per me, questa e la cosa migliore di tutto il progetto!
Partendo da questa bella esperienza come immagini il tuo futuro di cineasta?
Oggi ho davvero fiducia in questo metodo di lavoro, l’ho testato, l’ho sviluppato, ci ho pensato e voglio approfondirlo ulteriormente con altri tipi di ambiente e di persone. In questo momento sto pensando a quale tipo di ambiente sarebbe più adatto per portarlo avanti. Per esempio, in Svizzera, la prostituzione è legale, vorrei lavorare con un’associazione che difende i diritti delle prostitute e, eventualmente, creare un progetto con un gruppo di prostitute. Questo è uno dei progetti che ho in mente. Dopo di che, ho altri progetti in Inghilterra, negli Stati Uniti, ovunque!
Sì, perché nella sua vita hai viaggiato molto, vero? Quindi per te ci sono altri ‘territori’ interessanti da sondare.
Sì! Vorrei usare il mio metodo anche in un’altra lingua, per vedere come va. In inglese potrebbe venire bene! (Ride)