LA VEDUTA LUMINOSA
CONVERSAZIONE CON FABRIZIO FERRARO
La Veduta Luminosa costituisce l’ultimo capitolo provvisorio, di un’opera cinematografica, quella di Fabrizio Ferraro, che evolve sulla scia di un cammino dove coscienza politica, mondo naturale e dimensione metafisica si fondono in un unico slancio visionario e poetico.
Attraverso l’erranza di Emmer, (Roberto Carlini), regista caparbio ed intransigente alla ricerca di un’inattingibile verità ultima nel suo progetto di film su Hölderlin e della sua sfortunata compagna di viaggio, l’assistente Caterina, interpretata con vibrante sensibilità da Catarina Wallenstein, Fabrizio Ferraro c’invita a sondare l’universo della lirica dell’ultimo periodo di Hölderlin, il periodo della follia, attraverso un percorso umano che è ricerca, immedesimazione ed infine dissoluzione dal sé in una sorta di comunione ultima con le parole del poeta.
La poesia di Hölderlin, fonte d’ispirazione, motore e meta di La veduta luminosa, presentato in prima mondiale al Forum della Berlinale, ne abita ogni fotogramma.
Hölderlin è al cuore di Veduta Luminosa. Qual’è il perché di questa scelta?
I motivi sono vari e stratificati. In primo luogo volevo chiedere aiuto alla poesia come capacità di sondare qualcosa di indicibile che il linguaggio corrente non riesce ad afferrare. In secondo luogo penso che il ricorso alla poesia di Hölderlin sia cruciale per il periodo storico che stiamo vivendo e non mi riferisco solo al momento attuale della pandemia. Stiamo attraversando un momento di transizione, un cambio di paradigma nel nostro rapporto con la vita in generale, una vita dominata sempre di piú dalla tecnologia. Proprio in questo contesto penso che il riferimento a Hölderlin sia essenziale perché i dilemmi che affrontiamo oggi erano già presenti in nuce nella sua arte, nel suo pensiero. Un aspetto ulteriore che mi ha sempre affascinato è la biografia di Hölderlin, la sua ‘follia’ e il fatto che lui abbia trascorso la metà della sua vita, dalla manifestazione dei primi sintomi fino alla sua morte, recluso in un isolamento quasi totale in una torre a Tubinga. Mi affascina questo suo essere al margine e il suo riuscire ancora a scrivere delle poesie fulgide e visionarie come la sua ultima intitolata Die Aussicht, La Veduta da cui si ispira il film, un trattato poetico sulla visione che, a mio avviso, dovrebbe fare parte dell’insegnamento in ogni scuola di cinema perché riesce ad aprire una dimensione che appartiene sostanzialmente al cinema. Direi infine che per me si trattava di affrontare la fabbricazione del film come una vera e propria esperienza di vita, come un processo in fieri che avrei realizzato abbandonandomi all’aspetto istintivo di quest’evoluzione. Per me era essenziale attraversare fisicamente la Foresta Nera, camminare e sostare in questi luoghi che sono come sospesi nel tempo per potervi incontrare le parole di Hölderlin materializzate in quel paesaggio, come un’epifania nella natura.
In quale parte della Foresta Nera si sono svolte le riprese?
Ho filmatonella zona centrale della Foresta Nera, nella zona di Fischenberg e poi vicino a Tubinga. Giravo immaginando i percorsi di Hölderlin. Hölderlin camminava sempre, ha attraversato l’Europa a piedi…
Quando hai girato il film?
Tutto il film l’ho girato prima dell’arrivo del Covid, qualche lavorazione anche dopo, ma sostanzialmente prima.
Da Les Unwanted de Europa (2018), passando per Checkpoint Berlin (2020) ed infine in La veduta Luminos, il cammino sembra essere una figura essenziale nel tuo cinema; come metafora della vita, della ricerca di un senso, come via di salvezza, passaggio e riscossa umana e politica. Nei due primi film il protagonista attraversava fisicamente i limiti di una frontiera fra due paesi, una frontiera che diventava simbolo di un passaggio fra la vita e la morte. In La veduta luminosa il cammino del protagonista si rifà ad una figura ricorrente del romanticismo tedesco, quella del Wanderer, del viandante, dell’uomo che esplora il mondo camminando….
Certo, in tutti i film c’è la presenza di una fuga, di un muoversi, di un camminare…Nel caso di Walter Benjamin in Les Unwanted de Europa questo cammino si svolge in una zona molto ampia, una zona di confine che si estende lungo tutto il paesaggio maestoso dei Pirenei; in Checkpoint Berlin il cammino è piuttosto un sostare sulla linea sottilissima del ‘muro’ riuscendo a contemplare le due parti contemporaneamente, l’Est e l’Ovest, e a tenerle insieme. Anche nel caso di La veduta luminosa la mia idea di fondo era quella di costituire una zona sospesa, aperta all’accadere. L’erranza del cammino c’immerge in un mondo aperto dal quale le cose possono emergere spontaneamente e rivelarsi a noi. Il passo fisico, il camminare, è in sé una cosa molto strana, contiene una sorta di antinomia. A pensarci bene un passo nega l’altro e, alternandosi, i passi creano una zona sospesa; questo aspetto è fondamentale per capire la relazione fra noi e il paesaggio che cessa di essere percepito come una dimensione esterna, aliena. Il concetto di visione, come lo intende Hölderlin, abolisce la separazione fra l’individuo e il mondo facendo emergere questi due elementi come delle compresenze simultanee. Al di là del nostro tentativo di trovare un’identità in cui riconoscerci e un rifugio nella soggettività, Hölderlin ci insegna che nella vita le cose sono più ampie e più articolate; il soggetto e il mondo costituiscono un’unità inseparabile. Applicata al cinema questa concezione della visione ci mostra come non esista una vera separazione fra l’oggetto della visione e colui che lo guarda. Il cinema crea di fatto un processo più ampio capace di inglobarli entrambi e di farli esistere nello stesso momento.
Ogni film è sempre anche una riflessione sul cinema stesso…
In effetti, ogni forma di espressione contempla la riflessione sul medio che utilizza. La scrittura è sempre riflessione sul linguaggio, la poesia lo è sul limite e sulla possibilità di far dire alle parole qualcosa che non possono dire; la presenza è qualcosa di misterioso nel farsi della vita. Così anche facendo un film ci si relaziona con il cinema riflettendo su quello che accade a chi intraprende questo viaggio e sul fatto che l’opera, una volta finita, diventerà autonoma e camminerà con i suoi passi attraverso la visione della gente.
La veduta luminosa è cosparsa di pensieri sulla relazione fra il mondo umano e quello animale, come ci mostra anche una sequenza esemplare in cui Emmer, il protagonista, riflette sul rapporto complesso e paradossale fra il ragno e la mosca.
Questa riflessione era già presente anche nei miei film precedenti. La frontiera fra l’uomo e l’animale è costituita dall’uso del linguaggio. L’animale si esprime in un modo non verbale, ma non per questo è a volte meno eloquente. In Les unwanted de Europa per esempio le mucche che pascolano sui Pirenei sono in completo accordo con il paesaggio mentre i militari che scappano e cercano un rifugio sono un elemento alieno, perturbatore. Gli animali rivolgono ai fuggitivi uno sguardo muto, interrogativo. Nel momento stesso in cui parliamo, anche adesso, in realtà c’è sempre un qualcosa che non si riesce ad incontrare; è la questione della presenza, del cogliere ed esprimere attraverso il linguaggio, le cose in sé. È un problema di fondo che ci si pone sempre anche quando si fa un film; il linguaggio ci dà grandi possibilità di costruire dei mondi, di fonderli ma, nello stesso tempo, paradossalmente crea una discrepanza. L’uomo è un animale che parla ma questa sua attitudine lo allontana di fatto dall’equilibrio, dal vivere le cose in accordo con il proprio pensiero. Nel momento stesso in cui si dice una cosa, la cosa non c’è più, diventa ‘altro’. Facendo un film in cammino nella la Foresta Nera con le immagini ho cercato di capire come materializzare queste sensazioni. Il cinema non fa altro che questo, nella maggior parte dei casi. Anche in questo periodo di crisi e di transizione che stiamo attraversando, in cui comprendersi diventa difficile, il cinema si trova sempre nella condizione di dire le cose, di tradurre la lingua in immagini ma nel ‘dire le cose’ non fa altro che confinarle. L’esperienza stessa della visione ci rinchiude in una dimensione circoscritta.
Però l’immagine ha una forza in sé che va oltre le nostre intenzioni; se c’è una salvezza, questa salvezza è nell’immagine stessa…
Sì, sono d’accordo.
Potresti parlarmi della storia che racconta il film e dei due protagonisti Emmer e Caterina?
Il film ha questa traccia: due persone che s’incontrano per fare un film e cercare dei paesaggi adatti che possano stimolare un lavoro con le immagini. Era proprio questo incontro, da posizioni molto diverse, con una lingua non comune che li tiene molto distanti, da cui sono partito. Mi interessava il fatto che da questa distanza potesse nascere una prossimità fisica, un sostegno, un tentativo di trovare uno spazio di condivisione nonostante gli ostacoli. Questa tensione quasi amorosa tra i due, benché siano distanti, questo movimento mi sembrava la cosa più interessante, anche rispetto a quanto dicevamo prima. Il grande orizzonte del cinema entra in conflitto, come ogni opera, con le sue leggi, i suoi rendiconti, i suoi elementi concreti, pratici di messa in atto. In questo movimento di un’opera che sembra sfuggente per mille motivi, mi piaceva sondare la possibilità che due persone si davano l’un l’altra ascoltandosi silenziosamente.
Come dicevo prima, Emmer fugge perché sa che c’è Catarina a rincorrerlo, altrimenti non ci sarebbe mai stata fuga. Questo continuo avvicendarsi nell’esistenza dell’altro mi sembrava un elemento molto interessante capace di contenere questa serie di ‘compresenze’: quella tra la foresta e un essere umano che guarda un paesaggio e quella tra la condizione di vivente, di animale e una cultura che mette in crisi questa condizione di animale.
Alessandro Carlini e Catarina Wallenstein sono gli interpreti di Emmer e Caterina. Insieme formano una coppia molto particolare ed insolita. Cosa ti ha spinto a scegliere loro per incarnare i due protagonisti?
Sia Alessandro Carlini che Catarina Wallenstein avevano già lavorato con me. Li conoscevo bene, sono due persone che avevano la necessità e la forza di mettersi in gioco. Catarina Wallenstein aveva già partecipato al mio Les Unwanted de Europa ma è un’attrice rinomata che ha collaborato con Oliveira in Singolarità di una ragazza bionda e anche con Raul Ruiz in I misteri di Lisbona e poi con Valeria Sarmiento e Joao Botelho. Ero sicuro che Catarina sarebbe stata all’altezza di un progetto molto rischioso, aperto alle variabili del paesaggio, senza situazioni circoscritte, con un continuo lavorio sull’idea del viaggio e della fuga. Anche Alessandro Carlini ha fatto altri film con me; è il protagonista maschile di Checkpoint Berlin che considero quasi come un film preparatorio a La veduta luminosa. Alessandro Carlini aveva lavorato anche su un mio altro film ispirato al Martirio di San Sebastiano di Mantegna, SebastianO nel 2016. È difficile trovare persone che abbiano veramente il coraggio, la forza di fare un lavoro del genere in cui i punti di partenza sono solo dei pretesti ma poi il lavoro è continuo a seconda dei cambiamenti che sopravvengono. Per tutti noi è stato un lavoro molto faticoso.
Tu cerchi sempre il tuo film facendolo, i tuoi film sono dei progetti in fieri..
Assolutamente sì, io e i miei collaboratori ci diamo sempre delle aperture in relazione a quello che accade nella vita, ma anche nell’organismo del film stesso. Il film segue il suo farsi, è una scrittura continua, non so mai dove andiamo, anche perché se sapessi già in anticipo cosa potrebbe essere il film non avrei la forza di scoprirlo!
In Emmer c’è questa duplicità di un personaggio che, da un lato, cerca Hölderlin, ma dall’altro s’immedesima sempre di più in lui. Nell’ultima parte del film non solo il suo modo di camminare ma anche la sua dizione, la sua voce cambia; Emmer sussurra, parla con sé stesso, girovagando perduto nella foresta.
É stato un lavoro abbastanza intenso. Dalle immagini emerge questo suo modo di camminare su rovi impercorribili nell’ultima parte del film in un processo di dissoluzione progressiva del sé. Emmer non è più separato dal mondo; disperdendosi nella foresta, diventa la foresta stessa.. Dietro queste immagini c’è un lavorio accanito sull’ultima, breve, composizione lirica di Hölderlin. Camminando Emmer svolge una nuova ricerca su ogni singola parola, cambiando anche la traduzione di tre-quattro versi di questa poesia. Emmer continua a lavoraci su incessantemente; sposta le parole e le rimette in gioco rielaborando il poema della veduta e, in un tentativo folle ma magico, riesce quasi a materializzare il poema.
Mi riferisco ad una situazione di cui noi tutti, potenzialmente, possiamo fare esperienza anche nel nostro quotidiano, nella vita più ordinaria; mi riferisco a quella situazione in cui ci si sente finalmente in accordo con le cose senza riuscire a esprimere quest’esperienza con le parole, semplicemente perché le parole adatte per farlo non esistono. Lungo il tragitto il signor Emmer si trasforma, infatti anche la tensione amorosa tra lui e Caterina cambia. Quando Emmer sente il richiamo di Hölderlin e della foresta il suo rapporto con Catarina deve interrompersi perché ormai lui diventa un pezzo di foresta e se ne va per la sua strada all’incontro di Hölderlin. Questo percorso si conclude con l’ultima immagine del film: la torre dove il poeta aveva vissuto recluso a Tubinga. Oggi la torre viene restaurata e le impalcature ne fanno una sorta di esoscheletro in piena dimensione pubblica. Ma se questo incontro finale è possibile lo è proprio attraverso il cammino del signor Emmer. Gli elementi si sovrappongono e sono finalmente en kai pan, come diceva Holderlin, un uno e tutto.
Potresti parlarmi degli aspetti formali di questo film, in primo luogo della fotografia, che trovo splendida. C’è un’alternanza particolarmente suggestiva fra delle immagini perfettamente nitide e delle immagini ce sembrano sfuocate in alcuni punti, come filtrate attraverso una lente deformante.
Quando abbiamo iniziato a lavorare sul film non ci siamo posti tante domande, c’era soprattutto la voglia di andare in una certa direzione e di seguirla. Durante questo processo mi sono reso conto di dovere creare una zona sospesa di luce, una zona sospesa tra tutti quegli elementi che sembrano distanti ma che sono in realtà prossimi. Per creare l’effetto ottico al quale ti riferivi abbiamo costruito delle macchine creando una sospensione di luce di modo che la luce non fosse solo diretta e che attraverso questa trasparenza si potesse contemplare la sovrapposizione di tutte quelle parti che siamo abituati a considerare come separate mentre formano un’unità indissolubile: noi stessi, il nostro corpo e il mondo fuori di noi.
Nella prima sezione del film, per esempio nella sequenza in cui i due protagonisti visitano uno zoo e in seguito durante il loro viaggio in macchina, spesso filmi lasciando degli ostacoli fra noi e la cinepresa, crei una veduta in parte impedita, lo faceva molto Oliveira, con altre modalità, poi entrando nella foresta pian piano questo aspetto si dilegua.
Mi sono accorto del fatto che esiste una condizione di prigionia trasparente. Nel mio film precedente, Checkpoint Berlin, c’è una divisione concreta costituita dal il muro di Berlino che ostacola la vista; vedere oltre il muro è un movimento possibile, invece in La Veduta luminosa c’è una specie di prigione trasparente che avvolge di elementi, una prigione trascendentale. Visualmente c’è continuamente un ostacolo che però non impedisce, non blocca completamente la visione come il muro ma la mette in gioco nelle varie trasparenze.
La Veduta luminosa inizia con la fine della vicenda, perché hai sentito la necessità di dare al tuo film una struttura circolare?
Siamo talmente abituati ad uno sviluppo lineare, ma poi notiamo che tutto è già concluso; una volta che si è abbandonata l’idea di un progresso continuo con una vita infinita e una realtà storica da raggiungere e da sviluppare, gli elementi della vita in realtà sono già tutti lì, la struttura della storia è circolare. Anche la paura del futuro, come in questo momento – questo ce lo insegna Primo Levi- viene sempre dal passato, è un circolo come il movimento della vita, un movimento vorticoso, immenso, però sempre un movimento immobile.
A te interessava dunque esprimere l’idea di una circolarità…
Si, mi interessava l’idea di un movimento che è già in sé, che non porta da nessuna parte. Ovviamente non è stato tutto così ragionato a tavolino… ma dev’essere così, i film devono muovere e stimolare riflessioni dopo, mai prima, se lo fanno prima, il film nasce senza anima, già morto. É sempre Hölderlin che indica la via della veduta, lui utilizza l’espressione in die Ferne, che quasi tutti traducono con l’aggettivo lontano, mentre è un sostantivo, la lontananza, che è una condizione, uno stato in cui soggetto e oggetto vengono sovrapposti, non c’è questa direzione lineare e Hölderlin l’ha espresso col suo modo di poetare. Forse sono stati anche questi i motivi per cui il pensiero della circolarità si è tradotto nell’esperienza del film in modo così concreto modellando la sua struttura su questo errare in realtà immobile che torna sempre al punto di partenza.