Inatteso e commovente, in mezzo alle imponenti produzioni del concorso internazionale, An episode in the life of an iron picker di Danis Tanovic, documenta con laconica schiettezza le condizioni di vita di una piccola comunità rom in Bosnia.
All’origine di questo progetto si trova un fatto di cronaca, un trafiletto letto per caso da Tanovic su un quotidiano, in cui veniva descritta l’epopea di una coppia rom alle prese con l’indifferenza criminale delle autorità sanitarie locali che avevano rifiutato di operare d’urgenza la donna priva di libretto sanitario e di denaro sufficiente per pagare in contanti, mettendo così la sua vita in pericolo. Il marito si era battuto invano con tutti i mezzi legali a sua disposizione, ma solo ricorrendo ad uno stratagemma – un libretto sanitario prestato da una parente – era riuscito a salvare in extremis la moglie da un’infezione letale.
Questa storia, ha spiegato il regista durante la conferenza stampa, l’aveva fatto andare su tutte le furie ad un punto tale che, senza pensarci su, aveva deciso di andare subito a conoscere da vicino i suoi protagonisti: Senada Alimanovic e Nazif Mujic. In teoria avrebbe voluto farne un film di finzione ma, ben presto, si era reso conto che un soggetto del genere non avrebbe mai trovato dei finanziamenti e se, nonostante tutto, avesse voluto tentare di realizzarlo ci sarebbero voluti anni ed anni per farlo. Sentendo l’urgenza e la necessità di trattare questo tema nell’immediato, Tanović ha preso la decisione di girarlo in loco con i suoi protagonisti reali.
An episode in the life of an iron picker è un non-budget film girato un po’ come una guerrilla- movie, senza permessi, in una sola decina di giorni, con una sovvenzione di soli 1000 euro ricevuta da un fondo regionale, grazie alla complicità e alla partecipazione di un gruppo di amici tecnici che hanno accettato di lavorare senza venire pagati.
Tanović non si sarebbe mai aspettato di venire incluso, con un film così fragile, nel concorso internazionale della Berlinale, come ha spiegato alla stampa. Senza dubbio il suo percorso anteriore ha certamente operato come una sorta di garanzia per il comitato di selezione; non bisogna dimenticare infatti che il suo primo lungometraggio, No man’s land, vinse nel 2001 il premio per la migliore sceneggiatura a Cannes nonché un Golden Globe e l’Oscar per il migliore film straniero nel 2002.
An episode in the life of an iron picker è quello che si chiama un re-enactement: il regista in poche parole ha chiesto a Senada e a suo marito di riprodurre davanti all’obiettivo la loro disavventura. Questo modo di procedere si è rivelato essere un’operazione rischiosa in più di un senso: dolorosa per i due protagonisti, costretti a rivivere un’esperienza penosa ed umiliante per loro, e problematica rispetto alla qualità del film stesso, privato della spontaneità e della presa diretta di un documentario classico da un lato, della professionalità di una troupe di attori di mestiere dall’altro. Se il film è riuscito, in una certa misura, non lo è tanto in virtù dell’episodio centrale di cui tratta, ma soprattutto per tutto quanto è periferia nel suo racconto, per la descrizione attenta e discreta dell’attività quotidiana del protagonista.
La cinepresa segue a lungo, senza mai essere invadente, il lavoro di quest’uomo alle prese con un ambiente ostile e con un’occupazione dura e scarsamente remunerata, riprende la sua fatica nel cercare in mezzo al freddo e alla neve delle vecchie ferraglie da tagliare e da rivendere; in queste sequenze, pacate e quasi silenziose, si sente vibrare una vena di autenticità lontana da ogni messa in scena fittizia.
An episode in the life of an iron picker é anche il ritratto di una piccola comunità rom sedentaria, di un piccolo villaggio di gente che si aiuta vicendevolmente; sono uomini e donne di poche parole, dai volti scavati e dalle mani ruvide, abituati ad una vita difficile e a delle condizioni precarie. Nella loro rassegnazione e nella loro caparbietà si sente tutto il peso di una quotidianità fatta di necessità impellenti, in cui bisogna cercare di andare avanti, sopravvivere, giorno dopo giorno, con uno sforzo costantemente rinnovato.
Così Senada, la protagonista di questa vicenda, fiera ed orgogliosa, dopo essere stata respinta più volte dalle autorità sanitarie, nonostante la gravità e l’estrema urgenza della sua situazione, rifiuta alla fine di continuare a pregare invano chi, dietro a delle vane scuse burocratiche, si rifiuta di prestarle aiuto, e preferisce mettere in pericolo la sua stessa vita, piuttosto che continuare a subire delle umiliazioni.
In un brevissimo episodio Nazif accenna al tempo della guerra e le sue constatazioni sono amare: durante quattro anni ha combattuto con l’esercito Bosniaco, non ne serba un cattivo ricordo, almeno, così deve tristemente ammettere, durante quel periodo sentiva di avere un compito ben preciso e faceva parte di un gruppo animato da uno scopo comune e sacrosanto. Racconta di avere combattuto con convinzione, sentendo di fare il suo dovere, eppure è costretto a riconoscere che oggi i suoi servizi ed i suoi sacrifici in tempo di guerra non gli vengono riconosciuti. Quello stato per cui ha così duramente combattuto non gli garantisce neppure un’assicurazione sanitaria e, sotto queste condizioni, gli costa ancora di più, pensare alla tragica morte di suo fratello, i resti del quale gli furono restituiti in un sacco di plastica. “Come è possibile che un corpo umano possa essere contenuto in uno spazio così ridotto?” ricorda di essersi chiesto quando gli era stato consegnato l’orrendo fardello, per scoprire subito dopo la tragica risposta; l’unica parte del corpo rimasta intatta era la testa, il resto era ridotto a brandelli…
Così Tanović, prendendo spunto da un fatto di cronaca, impercettibilmente quasi, finisce per parlarci dell’indigenza attuale di un paese, la Bosnia, che vent’anni dopo la fine ufficiale della guerra non ha mai smesso di trovarsi in uno stato d’urgenza perenne. Delusione, sconforto, frustrazione e mancanza di ogni speranza in un futuro migliore sembrano essere i soli sentimenti possibili in questo luogo. Nonostante le buone intenzioni che lo animano e l’indubbio spirito di denuncia che lo definisce An Episode In The Life Of An Iron Picker é un oggetto filmico ibrido, alquanto convenzionale, incapace di creare un’autentica commozione nel cuore dello spettatore.
Dietro l’apparente obiettività del racconto e la prossimità con i personaggi indotti a riprodurre un’esperienza realmente vissuta, non si riesce a percepire alcuna scintilla di vera compassione e calore umano da parte di chi li filma, al contrario l’impressione che ne risulta è piuttosto quella di un certo disagio dei protagonisti stessi che sembrano quasi intrappolati nei loro ruoli prestabiliti.
Pur non sprovvisto di una sua grazia mesta e a tratti disarmante An Episode In The Life Of An Iron Picker resta, pur sempre, un film alquanto fragile e schematicamente pragmatico, più documento e testimonianza che opera di finzione a parte intera. In questo contesto sconcertante ed alquanto incomprensibile risulta la decisione della giuria di attribuirgli ben due premi: il Gran premio della giuria, secondo per importanza all’Orso d’Oro, e il premio d’interpretazione maschile, conferito a Nazif Mujic che interpreta se stesso nel film.
Pur ammirando e ri
spettando il coraggio civile, la fermezza e lo spirito combattivo di Nazif di fronte alla discriminazione e all’ingiustizia, queste qualità da sole non bastano, bisogna ammetterlo, a fare di lui un attore eccezionale; ricompensare un personaggio attraverso il suo interprete significa purtroppo confondere, in modo inammissibile, il mestiere d’attore con il valore umano di un individuo.