Inventivo, eccentrico, malinconico ed ipnotico, disperatamente tragico e sorprendentemente comico Tabu di Miguel Gomez é certamente il film più originale in competizione alla Berlinale di quest’anno.
Già dalla prima visione, Tabu s’impone come un classico rivelando definitivamente il giovane regista portoghese, dopo A cara que mereces e Aquele querido mês de Agusto, come uno degli autori più promettenti del cinema contemporaneo. Tabu non ci narra altro che la storia di una donna, Aurora, ma lo fa con una libertà stupefacente ed una ricchezza narrativa e stilistica straordinaria.
Esclusivamente in bianco e nero Tabu è, in un certo senso, tre film in uno: il prologo- un breve pastiche comico girato nello stile di un documento etnografico d’altri tempi- ci narra la vicenda di un esploratore del continente Africano che, per amore, si lascia serenamente inghiottire da un coccodrillo.
La prima parte, Paradise lost, in 35 millimetri, ci rimanda al presente. Nella Lisbona di oggi s’intreccia il destino di tre donne sole: Pilar, una cinquantenne cattolica, premurosa ed altruista, Aurora, una vecchia dama stravagante ed un po’ svampita che vive con una badante capo-verdiana, Santa, accusandola di ordire oscuri sortilegi nei suoi confronti.
La seconda parte, Paradise, in 16 millimetri, é il racconto della vita di Aurora, cinquant’anni prima in una colonia africana dove la giovane donna possedeva una fattoria. Teatro di una storia d’amore appassionata e trasgressiva, fra Aurora e l’avventuriero italiano Gian FrancoVentura, Paradise, é raccontata in voce off del suo vecchio amante.
Sobria, realistica e prosaica la prima parte del film, Paradise lost, si svolge fra Natale e Capodanno nella periferia di Lisbona all’interno delle torri anonime di un quartiere residenziale. I personaggi si muovono in uno spazio esclusivamente urbano, fra le mura di edifici grigi e severi; piccoli appartamenti, sale di cinema, un ospizio, un ospedale, la hall di una stazione o i viali ordinati di un parco pubblico. La tenue luce invernale aggiunge un leggero grigiore all’immagine. Anche quando il tempo é soleggiato, una bruma perenne sembra coprire la città ed i suoi abitanti, creando un’ atmosfera mesta, densa di nostalgia.
La narrazione si costruisce in un primo tempo lentamente; Paradise lost, é disseminata d’indizi bizzarri e, a prima vista, inintelligibili. Così, in una scena memorabile, mentre la cinepresa di Gomes continua a girarle insistentemente tutt’intorno, Donna Aurora, che ha perso tuti i suoi soldi al Casino di Estoril, racconta a Pilar con una boria sorprendente, un sogno astruso in cui il marito di una sua amica deceduta si trasforma in scimmia e poi inizia a giocare alla roulette consigliandole i numeri su cui puntare. Più avanti Donna Aurora, che già sta poco bene, accusa la sua badante di essere un emissario del demonio incaricato di castigarla e spiega, ad un’incredula Pilar, di avere molta paura perché le sue mani sono macchiate di sangue. Qualche giorno dopo Aurora si ammala molto gravemente; in ospedale, ormai in fin di vita, racconta di un coccodrillo che si è perso nel giardino del vicino di casa…
Questi dettagli oscuri e, a prima vista, enigmatici sono la mappa segreta di un mondo scomparso che si rivelerà pienamente ai nostri occhi nella seconda parte del film.
Con una naturalezza disarmante, Gomes riesce a farci glissare, attraverso le parole del vecchio Ventura, dall’interno della serra di un parco commerciale di Lisbona, decorato per le feste di Natale, nel pieno della savana Africana di cinquant’anni fa.
Al cambiamento radicale di tempo e luogo corrisponde un cambiamento radicale della messa in scena, del formato e del trattamento del suono.
L’immagine, dai contrasti smussati, granulosa e lattea, rende l’atmosfera eterea e lievemente irreale, il suono, sincretico, sembra tessuto della stessa materialità fuggente di un sogno: tutti i rumori d’ambiente – il soffio del vento, lo scroscio delle foglie, il boato delle onde o quello dei motori di una macchina – sorgono palpabili dalla diegesi accompagnati a tratti da alcuni successi pop dell’epoca. Come un ritornello dolcemente evocatore queste melodie s’intrecciano con la voce disincarnata di Ventura che, da un al di là incommensurabile, riesuma tutto questo mondo dissolto riempiendo di significato il vuoto spettrale del passato con parole, affetti, sensazioni e passioni dissolte dal trascorrere del tempo. Tale un eco inquietante, le labbra dei personaggi si muovono senza che il nostro udito possa percepirne la ben che minima traccia sonora.
Costantemente luminosissima, l’inquadratura si apre su paesaggi immensi di stupefacente bellezza che i protagonisti, in perenne movimento, percorrono in lungo e in largo; in marcia veloce par una partita di caccia, in bicicletta o correndo in macchina e ancora a cavallo, guidando in modo scapestrato delle motociclette lungo le piste incerte della savana, arrampicandosi furiosamente sulle delle rocce impervie per ammirare una cascata, scalando monti, buttandosi fra le onde dell’oceano.
Se la prima parte, il presente, é quella della maturità e della vecchiaia, dell’isolamento e della solitudine la seconda parte, Paradise, é quella della giovinezza, di un amore impossibile e struggente, dei ricordi, della memoria, di un mondo intero – quello coloniale- sommerso ed estinto per sempre.
Delle immagini di dolente melanconia costellano il racconto restandoci impresse come quella dei due amanti che, guardando insieme le nuvole nel cielo, vi scoprono, con uno sguardo complice ed estatico, le forme di vari animali.
Immergendoci dolcemente nell’atmosfera decadente di una colonia tropicale negli anni sessanta Miguel Gomes, ci trasporta in un mondo di mistero e poesia, d’incanto e bellezza selvaggia senza mai perdere la giusta distanza, con un distacco divertito e un senso dell’humor sobrio.
Assolutamente imprevedibile, Tabu ci offre una meraviglia dopo l’altra; intorno filo conduttore della vita di Aurora, come da una scatola magica, una miriade di racconti sorgono l’uno dopo l’altro, snodandosi con prodigiosa naturalezza. Leggende, storie riferite da altri personaggi, poesie, visioni, profezie, testi letterari, spezzoni di film nel film, lettere, diari concorrono a creare una meravigliosa proliferazione narrativa.
Tale una divina commedia, l’opera di Gomes abbraccia vita e morte, amore ed odio, spazia nel tempo e nei luoghi. Il presente del Portogallo ed il suo passato coloniale si fondono in uno; vie cittadine e paesaggi tropicali, servi e padroni, animali selvaggi e domestici diventano il tessuto di qui è fatta la vita di tutti i giorni e l’humus di cui si nutre il ricordo.
Tenendoci con il fiato sospeso dalla prima all’ultima sequenza Gomes sa riprodurre sullo schermo quello stato di meraviglia pura proprio del cinema dei primi tempi.
Quest’operazione non è ingenua, né inconscia ma la grazia, la leggerezza e l’ironia con cui Gomes si appropria dei codici del cinema del passato per riproporli e stravolgerne gentilmente i canoni è stupefacente.
Tabu non è un film sul meta-linguaggio cinematografico, né uno scrigno da cinefili; i riferimenti alla storia del cinema, come il suo titolo, eco dell’ultimo film di Murnau, puntano verso le origini del cinema come una fonte d’ispirazione .
Commossi e divertiti, stupefatti e grati, possiamo essere certi di avere assistito ad uno di quei rari momenti in cui il cinema sa reinventare se stesso. Tabu < /em>è stato ricompensato alla Berlinale con il Premio Alfred Bauer e con quello della Giuria Fipresci.