Perchè sì |
Perchè no |
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di Pierluigi Battista dal “Corriere della sera”
Ripubblichiamo qui un articolo di Pierluigi Battista apparso sul “Corriere della sera” il 6 agosto scorso. Il mondo del cineclub era scandito da riti e da liturgie. Era la nicchia colta che con la sua stessa esistenza manifestava la protesta contro il cinema massificato, prigioniero della mercificazione e dell’industria. Quando non esistevano Vhs e Dvd, videoregistratori e canali satellitari, c’erano i cineclub a spezzare il monopolio delle prime visioni schiave del mercato; i cineforum a estrarre il significato di un film portatore di un messaggio meritevole di essere scoperto e interpretato attraverso la maieutica del «dibattito»; i cinema d’ essai a restituire religiosamente, sera dopo sera, l’ opera omnia degli autori che erano l’ emblema del cinema non succube agli imperativi dei grandi numeri: tutto Bunuel, tutto Eisenstein, tutto Fritz Lang, Il settimo sigillo, La notte. Era lì che si fissava l’ educazione sentimentale di chi, nel rifiuto del cinema «facile», identificava una modalità esistenziale d’ opposizione condivisa dagli adepti di una setta, quella dei cinefili, che nell’ «autorialità» trovava il richiamo di un nuovo culto da vivere con spirito intransigente, esclusivo ed esclusivista. L’ascesi del cineclub non ammetteva deroghe e debolezze. Perfino nel cinema comico non si poteva non optare per Buster Keaton: il comico che, appunto, non rideva mai. O al massimo per Charlie Chaplin: ma perché faceva piangere, non ridere. Era il cinema delle forme algide ed eleganti, che nulla (si diceva così) poteva «concedere allo spettatore». L’ artisticità impregnava ogni suo fotogramma, garanzia della sua qualità di «non-merce», emblema di uno statuto di intellettualità che affiancava il cinema alle atmosfere rarefatte della letteratura, della pittura, del teatro, della fotografia, sottraendolo ai tentacoli dell’ industria che tutto semplificava e banalizzava. Era il cinema non subalterno della dittatura dei botteghini. Quello che non temeva i tempi lenti, le inquadrature stranianti, i piani-sequenza, la teatralità dei dialoghi. Se il cinema «facile» raccontava la commedia della vita, il cinema dei cineclub raffigurava la tragicità del quotidiano moderno, intessuto di incomunicabilità e condannato all’ insignificanza dell’inautentico. Il cinema normale era la prosa del mondo, quello dei cineclub la sua poesia. Il primo era un racconto sentimentale, il secondo un’enunciazione cerebrale. Popolare era sinonimo di «populismo», la scorrevolezza spensierata di qualunquismo, la risata di disimpegno. Di quel mondo non c’ è più traccia, e le morti di Bergman e di Antonioni ne annunciano la degna sepoltura. Il cinema «palloso» (la definizione spietata è di Dino Risi, un eroe del grande cinema popolare che ha saputo resistere al tirannico richiamo sacrale dell’ universo-cineclub) sopravvive al massimo nelle giurie tecniche dei grandi festival, che hanno il complesso dell’ «autorialità» e premiano regolarmente film che gli spettatori di massa non andranno mai ad ammirare. Il cinema viene ormai prodotto e consumato in tv. Senza dibattito finale, estremo oltraggio al mondo scomparso dei cineforum che spuntavano in ogni angolo d’ Italia, luoghi dimenticati di un culto che si estingue con l’ estremo addio a Bergman e Antonioni. |
di Giovanna Quercia Le condizioni in cui versa la critica cinematografica italiana e più in generale il giornalismo culturale, soprattutto nei quotidiani, sono davvero penose. Ce ne siamo già occupati ampiamente qualche mese fa dichiarandoci lettori insoddisfatti e chiedendo opinioni a Bruno Torri, Giuseppe Bertolucci, Carlo Lizzani. Naturalmente la vitalità della critica è direttamente proporzionale a quella artistico-produttiva: e infatti a maggio il movimento dei Centoautori (nato per chiedere con forza a Rutelli una nuova legge sul cinema) e la lettera di Bernardo Bertolucci a “Repubblica” si sono incaricati di denunciare quanto sfavorevoli siano le condizioni (economiche, culturali, e anche psicologiche) affinché nel cinema italiano emergano i talenti, ci sia ricambio generazionale, si facciano film con l’idea di contribuire all’arte e alla cultura di un paese. Come dovrebbe essere, e come sicuramente è stato in passato. Se ne è molto parlato e ci si è molto interrogati sulle responsabilità di questa situazione, ma al momento ancora nulla è accaduto che possa invertire il circolo vizioso negativo. Della nuova legge ancora non si sa nulla: per il momento, per quanto ne sappiamo, appartiene alla folta schiera delle promesse non mantenute del centrosinistra, e fa buona compagnia alla legge che doveva modificare la micidiale legge 40 sulla fecondazione assistita, a quella che doveva migliorare la legge Biagi, a quella che doveva regolare il conflitto di interessi… Speriamo (anche se poco) che l’estate porti consiglio. Tornando al giornalismo cinematografico, talvolta capita di imbattersi in qualche articolo – magari scritto di getto, d’estate, senza starci troppo a pensare su – che fa capire molte cose. Uno di questi è sicuramente l’articolo Requiem per il cineclub che scompare con Bergman e Antonioni di Pierluigi Battista, apparso sul “Corriere della sera” del 6 agosto. Lo pubblichiamo qui a lato perché è un articolo che sintetizza molto bene – a parere di chi scrive naturalmente – tutte le contraddizioni, i pregiudizi e l’appiattimento conservatore di chi si occupa di cultura in Italia (e ricordiamo che Battista è vicedirettore e anche responsabile delle pagine culturali del Corriere). Dunque quello di Bergman e Antonioni era un cinema anormale? No, era semplicemente grande cinema, che può piacere o dispiacere, ma che si assumeva il compito di riflettere sulla condizione umana, sui cambiamenti della società, e lo faceva sperimentando forme nuove e riscattando con la bellezza – dosi massicce di bellezza, di cui bisognerebbe sempre aver cura di circondarsi – qualsiasi pesantezza, qualsiasi sofferenza, qualsiasi morbosità. Tutte realtà che d’altronde sono ineliminabili dalla vita (e quindi dall’arte) per quanto ci si sforzi sempre più ostinatamente e disperatamente di fare finta di niente. Quello che sorprende, nell’articolo di Battista, è la persistenza dell’acredine contro il mondo dei cineclub, che sarà stato certamente pieno di eccessi e di intransigenze, ma ha avuto il merito di contribuire a far capire (non a tutti, come sembra evidente) che anche il un racconto per immagini e suoni è una forma artistica d’espressione né più né meno di un libro o di un quadro, e che anche “il cinema dalle forme algide ed eleganti” (altro epiteto usato per indicare il cinema d’arte) può suscitare invece forti passioni e riscaldare il cuore. Formidabili e ingenui difensori del cinema e degli autori, i cinefili, se negli anni 70 erano una minoranza agguerrita e con una certa influenza, ora in effetti non ci sono quasi più o coltivano solitariamente e segretamente la loro passione a casa col videolettore: perché accanirsi adesso contro un mondo così inequivocabilmente perdente e minoritario? Battista scrive che Risi “ha saputo resistere al tirannico richiamo sacrale dell’universo-cineclub” avallando così indirettamente l’idea che Bergman e Antonioni siano stati degli intellettuali vanitosi e snob che facevano film per riscuotere elogi dagli elitari avventori dei cineclub… Ma perché non riconoscere ora, tranquillamente, che invece sia Risi che Bergman facevano il cinema che sapevano fare, esprimevano ognuno a suo modo il proprio mondo, e ambivano come ogni artista a comunicarlo al maggior numero di persone possibile? Che Risi continui a etichettare come “palloso” il cinema di genere diverso dalle sue formidabili commedie, è molto ingeneroso ma umanamente comprensibile (in fondo è stato bersagliato per decenni dalla critica militante), ma che un giornalista come Pierluigi Battista continui a reiterare questa vecchissima divisione fra cinema d’arte e cinema popolare, è abbastanza insopportabile e, questo sì, pesante: possibile che 25 anni di rivoluzioni tecnologiche e di dissoluzione delle ideologie non abbiano spazzato via questo schema vetusto? E che lo faccia, poi, approfittandone per archiviare i film di Bergman e Antonioni come modernariato cui dare “degna sepoltura” (l’espressione ricorre due volte, all’inizio e alla fine) insieme al mondo dei cineclub, tradendo anche un certo sollievo, sembra francamente inspiegabile. Perché tanta fretta nell’annunciare la fine di questo cinema? Non sarà che se ne avverte ancora, oscuramente, la pericolosa facoltà di accendere una lampadina nelle coscienze addormentate? O è paura della bellezza? Per fortuna le opere di Bergman, di Risi, di Antonioni sopravviveranno a tutto questo, mentre, come dire, gli articoli di Pierluigi Battista, così come i nostri d’altronde…
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giusto stigmatizzare, anche con un po’ di rabbia, articoli come questo. Che poi non vale il contrario. Perchè sfido a trovare un amante del “bel cinema” che non apprezzi Una vita difficile, Il sorpasso, Divorzio all’italiana e via dicendo. C‘è espressa, nell’articolo del Battista, una tendenza recente riconducibile soprattutto ad una certa sinistra, secondo me, che è l’aver introiettato certi valori del “nemico”, ovvero l’aggressività, lo sfottò, la banalizzazione ironica della complessità delle cose. In definitiva, una certa pericolosa stupidità. E poi stupisce, davvero, che un responsabile culturale usi ancora parole come “normalità”, tra le righe suggerendo l’anormalità della poesia. Sarebbe meglio che il tipo, peraltro da certi passaggi evidentemente ben informato dei fatti, si arricchisca con la differenza. E non si faccia impaurire dalle rivelazioni della bellezza, oltretutto.
L’articolo battistiano poi non è neanche così pessimo, almeno è esatto e competente nel rievocare un’epoca di cui la doppia morte attuale non è che simbolica, ideale chiusura anche nel ricordo di un mondo lontano e malinconico come l’impero portoghese nei film di De Oliveira. Quanto alla resa incondizionata al “nemico”, beh, quella è parallela a tutta la generazione sessantottina, che è stata anche quella dei cineclub. Almeno in Italia, si sa, il giusto mezzo di scuola confuciana non è mai stato in auge, e il passaggio dai fin troppo rigidi schemi di pensiero e valutazione di 30-40 anni fa (quando anche i concerti dei cantautori “venduti” si trasformavano in processi sommari) allo sbraco totale e in certa qual forma liberatorio che gli anni Ottanta hanno principiato, non ha consentito l’emergere di una politica culturale (è politica anche la visione singola e collettiva da sala o cineforum) convincentemente democratica e pluralista. Non trinceriamoci in nostalgie da neige d’antan (perché in fondo è bello, ancorché dispersivo, poter avere a disposizione il mondo da tante fonti diverse, subito, senza dover aspettare la visione unica e irripetibile), né buttiamo a mare in toto un’epoca che tanto ha dato. Alla fine le immagini sono quelle che rimangono, purché rimanga qualcuno che continui a vederle e a trasmetterle, come i libri di Fahrenheit 451.
Sarà pure un fatto assodato – lo sbraco totale di certi sessantottini di cui parli – ma il fatto che sia assodato non toglie che sia veramente fastidioso e a tratti anche pericoloso, e non per la mancata coerenza(ché tutti hanno il sacrosanto diritto di cambiare idea) ma perché non si capisce dove vogliano andare a parare, non è che hanno cambiato idea, è che non hanno più uno straccio di vitalità, di passione, non distruggono per creare, distruggono per conservare, si divertono a sparare sulla croce rossa. Si fa presto a far morire la cultura, quella che non serve a niente nel senso che non arricchisce nessuno, a sfottere “i grandi autori”: poi cosa rimane? i film normali? La televisione normale, cioé tutto ciò che non ti fa mai sollevare lo sguardo dal quotidiano? Anche Giancarlo De Cataldo, in un articolo sul messaggero, ha notato, nei commenti alla morte di Antonioni “una certa fretta di liberarsi di una memoria ingombrante”. Cito ancora per chiudere “testimone di un internazionalismo animato da una febbrile ansia di ricerca, insofferente di ogni ghetto, Antonioni non poteva non finire nel mirino di un vecchiume che si alimenta delle mille paure del quotidiano in un Paese in cui si fa a gara a chi è più reazionario e intollerante. Da qui la lapidazione. Post mortem, come si usa dalle nostre parti”.
L’indirizzo per leggere l’articolo di De Cataldo, sul messaggero è questo: http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=7316&sez=HOME_SPETTACOLO
al di là dell’articolo di battista, non credo che il ruolo dei cineclub sia defunto, e forse anche vero che in un certo periodo abbia assunto quella sacralità da nicchia intellettuale e via dicendo. i cineclub oggi sono uno spazio in cui film che non hanno la risonanza distributiva e commerciale e che si perderebbo in tempi brevi nel dimenticatoio sono proposti al pubblico, un pubblico forse di nicchia, attento e curioso a piccole e nuove proposte che in genere sono quasi sempre film indipendenti, ed in questo vedo un rigenerarsi dei cineclub, anche se con molte difficoltà, in tutta italia ci sono svariati esempi, quindi, ben venga oltre tutto il resto la possibilità per chi con amore e passione cerca di fare film e di chi ne vuole usufruire perchè in nessun altro caso sarebbe possibile, non avrebbero così già come più volte è accaduto, alcuna visibilità.