Partiamo da un presupposto: risulta particolarmente ostico e soffocante tornare a ragionare dopo la visione delle immagini di Into Eternity, il documentario di Michael Madsen. Uno dei motivi più evidenti e dichiarati di questa difficile elaborazione sta nell’argomento alla base del film, ovvero nella richiesta esplicita che fanno i vari personaggi invitati a discutere ed esprimere riflessioni ed impressioni sull’argomento in questione. Ora, usare la parola “argomento” può apparire impropio visto che stiamo parlando di Onkalo, un gigantesco deposito di scorie radioattive che si sta costruendo nel sottosuolo roccioso della Finlandia in modo da poter raccogliere tutti i rifiuti generati dallo sfruttammento dell’energia nucleare che non possono essere ancora eliminati o dei quali non può essere eliminato il carico radioattivo. Il paradosso sta nel fatto che quello che si augurano tutti gli esperti, gli scienziati e i tecnici coinvolti nell’operazione è che l’esistenza di questo luogo, la cui costruzione dovrebbe essere completata entro il 2100, sia abbandonata all’oblio insieme al suo nocivo e pericoloso contenuto, in modo da evitare che le generazioni future siano incuriosite dall’andare a scoperchiare questa sorta di vaso di Pandora contenente, in fondo, i vizi della società tecnologica che tende a produrre e a proliferarsi indifferente alle esigenze della natura, alla salute, alla tutela dell’uomo, che pure è il primo responsabile ed artefice di tale proliferazione.Ma l’assunto da cui parte Madsen e che permette di superare il paradosso con una preoccupazione che si trasforma in istanza narrativa, è lo stesso Madsen chiuso nell’antro buio di una grotta e illuminato dalla luce primordiale di un fiammifero, mentre si interroga su cosa potrebbe succedere tra cento milioni di anni se mai gli uomini di quel lontanissimo futuro dovessero scoprire il giacimento di Onkalo e comportarsi come fecero con il vaso di Pandora. Le risposte che provano a dare gli esperti coinvolti, alcuni molto dubbiosi del progetto già in partenza, si muovono tutte sull’orlo dell’ovvia indeterminatezza e anche del terrore che suscita il doversi proiettare tanto in avanti con il pensiero rispetto a quello che sarà diventata l’umanità e se sarà possibile o meno comunicare ancora il pericolo attraverso linguaggi o segni convenzionali, così da poter evitare l’intrusione umana.
Into Eternity sembra vivere dentro lo spazio eterno che c’è tra la sospensione del volto, silenzioso e preoccupato, di uno dei tecnici-esperti, colto nella sua natura di essere umano incerto e spaventato, e le immagini del presente che contengono in sè già i semi del futuro. Immagini di lande desolate della Finlandia riprese come se fossero paesaggi sopravvissuti alle migliaia di anni di cui parla Madsen e dei quali non ci è data capacità di percezione temporale se non attraverso un’estetica glaciale e distaccata che restitusce, sotto forma di suggestione visiva, la vertigine della regressione al grado zero dell’immaginario. Allo stesso tempo Madsen mette sulla stessa frequenza questa natura asettica e svuotata di senso con la rappresentazione delle apparecchiature tecnologiche usate per lo stoccaggio delle scorie, le superfici bianche e riflettenti, i movimenti delle macchine colte nella loro indifferente e seducente perfezione, motivo per il quale è impossibile all’occhio della mdp non rimanere ammirato dal loro fascino e dalla bellezza fine a se stessa che esprimono, dimenticando la ragione per cui sono state concepite e costruite.
Il racconto visivo di Madsen si muove, infatti, all’interno del concetto di civiltà, di primitivo e di evoluto, di ciclicità delle fasi della Storia dell’umanità per cui alcuni esperti pronosticano un lento esaurirsi della società tecnologica e ne sottintendono l’autodistruzione attraverso l’ossessione per il nucleare. In questo senso Onkalo è la perfatta sintesi del naturale con il tecnologico, la trasformazione forzata e crudele di un luogo puro in un deposito contaminato, il rimosso della coscienza tecnologica.
Michelangelo Antonioni diceva che quando una macchina veniva scomposta manteneva nelle sue singole parti la bellezza dell’insieme, mentre un essere umano fatto a pezzi risultava disgustoso.
Quello che qui appare disgustoso è il pensiero che il rifiuto radioattivo, che non ha odore, colore o consistenza, sia stato prodotto da un’umanità che ora, nel presente, sembra trattare il futuro come la discarica nella quale poter riversare i sensi di colpa, le contraddizzioni, gli imbarazzi di una società che non ha saputo far crescere, con il processo tecnologico, una consapevolezza etica. E a perpetuo ricordo, Madsen sottolinea come debba essere conservata anche la piccola figura di uno degli operai, la rotella più piccola dell’ingranaggio nella costruzione del deposito di scorie, che diviene un pò l’inconsapevole Caronte dello sguardo nostro e del regista e ci traghetta in questo inferno buio dove si evoca un fuoco che non ha colore e dove il confine tra il giorno e la notte, tra l’estate e qualsiasi altra stagione dell’anno, è annulato e sospeso quando si entra dentro quel tunnel in costruzione, il tempo perso dentro un’eternità non affacciata sulla possibilità e sullo sviluppo, ma ripiegata sempre più su esseri umani disorientati e isolati.
Non c’è poi tanta differenza tra la vita dell’operaio che lavora per Onkalo, alienata ripetizione di gesti e azioni, e la ripetizione meccanica delle apparecchiature addette allo stoccaggio delle scorie. E non sappiamo dire qual è l’ipotesi che ci lascia più raggelati, se l’oblio a cui tutti si augurano sia destinato Onkalo e il suo contenuto, o il tramandarsi di questa storia nei secoli successivi come una leggenda orale per andare oltre il mutamento del sistema dei simboli.
Nell’uno o nell’altro caso il senso di claustrofobia asfissiante in cui ci sentiamo intrappolati non è più solo in quanto individui, ma in quanto appartenenti al genere umano.