pinkLa prima giornata del Bellaria film festival apre i battenti con documentari intensi e senza mezzi toni.

Il tema ricorrente è il conflitto, con le sue ingiustizie sociali, i suoi terrori, il suo dolore.

Il mondo da est a ovest, visto con gli occhi dei bambini e dei più deboli, che inermi assistono alla realtà che li coinvolge e li travolge nel caos generato dal male.

Andiamo per gradi.

India, 2010. Il primo lungometraggio è Pink Gang di Enrico Bisi. In una delle regioni più povere dell’India a pochi chilometri da Delhi una donna di nome Sampat decide di ribellarsi e organizzarsi contro i soprusi e le ingiustizie da sempre subiti da donne e appartenenti alle caste più povere. Un coraggio e una forza che sorprendono, che qualcuno in sala ha definito un miracolo. Sampat, donna indiana, analfabeta e con difficoltà di vista, ha due obbiettivi da raggiungere per aiutare le donne: l’istruzione e un bastone. Il suo primo passo è stato creare una scuola elementare per i bambini e una scuola di cucito per le donne adulte. Laboratori nei quali si tessono le divise della gang, sari rosa, che sono indossate dalle appartenenti all’organizzazione di Sampat. Pink gang. Addestrate oltre che a saper lavorare o a leggere e scrivere anche ad utilizzare un bastone per difendersi dalle aggressioni maschili.

Un documentario asciutto e senza musiche descrive la vita quotidiana di Sampat che in poco tempo ha radunato migliaia di altre donne e le ha organizzate in maniera tale da farle intervenire su richiesta ogni volta che c’è bisogno di dare voce agli inascoltati, ogni volta che una donna si rivolge a loro perché non sa cos’altro fare, in una società che lascia pochi inefficaci diritti cui appellarsi. E senza mezze misure Sampat e le sue pink denunciano che la polizia prende bustarelle piene di soldi per non indagare sui potenti e lasciare senza giustizia atti criminosi e orribili, inimmaginabile, anche solo con il pensiero, poterli vivere e accettare. La macchina da presa non si sottrae alla scena e lascia che a parlare siano le immagini. Le voci sono in presa diretta. Voci che mettono il gelo nel cuore e nella pancia, che tolgono il sonno. Lamenti di una bambina di tre anni appena violentata da un malato di mente, ricco e potente che non sarà mai accusato. A pochi chilometri, nella campagna senza strade dove si può arrivare solo a piedi, sussurri. Di un’altra bambina. Indica suo padre come l’uccisore di sua madre riversa in terra, massacrata dalle sue botte. Accanto al cadavere della nuora, la suocera che ha aiutato il figlio ad ucciderla.

La musica è presente in un unico punto del documentario, sul corteo in cui sfilano, accanto alla vita che continua a scorrere, le pink tutte in divisa, migliaia di donne provenienti da storie dolorose che hanno deciso di unirsi, di uscire dall’oscurità sociale e umana nella quale erano segregate.costa

Rwanda 1994. Si fa un salto nel passato. Sedici anni fa.

Il pomeriggio prosegue sulla scia delle vite dei bambini rwandesi sopravvissuti al genocidio dei cento giorni di follia programmata, che ha cancellato un milione di appartenenti all’etnia tusti e hutu moderati. 375 bambini salvati dal console italiano Costa con mezzi e soldi personali. La lista del console non convince sul piano stilistico e formale, ma i contenuti sono talmente forti da far dimenticare le ingenuità televisive delle ricostruzioni tra una testimonianza e l’altra dei veri protagonisti di quei giorni. Un paese terrorizzato e paralizzato dalla follia criminale dell’Occidente ex colonialista che cerca di mettere ancora le mani sulle ricchezze Rwandesi. Sì ancora l’Occidente. Gli autoctoni non avevano avuto fino a pochi decenni precedenti le distinzioni tra etnie diverse. Si instilla lentamente il virus della disuguaglianza tra le etnie che da sempre avevano vissuto in unità culturale e sociale. Si arriva al caos. C’è però un aspetto appena sfiorato nel documentario di Alessandro Rocca: è la complicità dei soldati francesi che cercavano di fermare il fronte della resistenza.

Nono
stante tutto ci sono atti di umanità, eroismo o semplicemente buon senso che portano il Console Pierantonio Costa a rischiare la sua stessa vita per salvare quella di duemila persone e di 375 bambini fatti scappare attraverso la frontiera del Burundi. Una storia che l’ha candidato al Nobel per la pace 2011.

oath

Infine il nuovo millennio. Scandito della vulnerabilità dell’Occidente. Oath, giuramento.

Fuori concorso, nella rassegna Panorama Internazionale. Protagonisti sono Abu Jandal, ex guardia del corpo di Osama bin Laden e Salim Hamdan, suo cognato, prigioniero a Guantanamo e primo dei detenuti a comparire in un tribunale militare.Quest’ultimo non compare mai nel documentario, ma è rappresentato attraverso le parole delle sue lettere ad Abu Jandal e dalle parole del suo avvocato difensore, un militare americano che si distingue per onestà e dolcezza nei confronti di Salim. Abu Jandal e il militare americano hanno fatto un giuramento. Entrambi si impegnano a rispettare una legge, quella della jihad e quella della costituzione americana. Intorno al mondo degli adulti, che contrappongono ragioni e rivendicazioni, è proprio il bambino di Abu Jandal a stupire di più. Lui, i suoi occhi posati su un padre che gli insegna i principi della lotta e della jihad, sorseggiando Coca-Cola. Lui che anzichè vedere le notizie dei morti della tv araba vuole vedere Tom e Jerry. Un bambino che è stanco ancor prima di crescere di queste chiacchiere, che vuole vivere la sua vita. E ripete come cantilena i nomi delle armi che il padre gli insegna a riconoscere, primo fra tutti un mitra posto accanto a lui a due mesi dalla sua nascita, immortalato in una polaroid.

Viene da sentirsi vinti, come questi bambini, alla fine del pomeriggio festivaliero. Come se, in tutti questi documentari, fosse stata volutamente nascosta la speranza per lasciare tra le righe la possibilità che qualcosa di nuovo possa nascere da questi momenti storici tanto bui. Una messa a fuoco su periodi storici molto precisi e delineati. Se si guarda bene, la speranza è incarnata nell’agire di uomini e donne che non si sono lasciati dominare dagli eventi e dalle apparenti sconfitte.

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