Sullo schermo ancora nero si cominciano ad udire le parole di una canzone in una lingua sconosciuta, una sorta di curioso inno femminista. A intonarlo, inizialmente, è una voce solitaria di donna, a cui successivamente si uniscono altre voci di donne, un coro che poi si materializza visivamente in un gruppo di donne indiane, tutte avvolte in un sari rosa e in marcia lungo i sentieri polverosi del Banda Distric, una delle regioni più povere a sud di Dehli.
Pink Gang (presentato in Concorso Italiana Doc) si imprime subito con una precisa riconoscibilità visiva e sonora dentro l’immaginario di uno spettatore occidentale che, specialmente rispetto alla condizione della donna in India, non si era creato aspettative o probabilmente anche solo posto una riflessione, un pensiero. L’incipit ci proietta già dentro una situazione sociale, culturale, umana che non conosciamo, che appare spiazzante e che non dà il tempo di prendere fiato e di riassettare, nel nostro campo visivo, le coordinate spaziali e temporali. Siamo catapultati in mezzo a quel flusso di donne e ben presto siamo costretti a fare i conti con la stessa realtà che dà un senso al loro stare insieme e all’indossare un sari rosa, all’intonare un canto le cui parole sono direttamente indirizzate contro la violenza degli uomini come un avvertimento e un monito: le donne indiane sanno unirsi e combattere per i loro diritti, una lotta necessaria in un mondo chiuso e dominato da leggi quasi barbariche, per cui il ruolo della donna è spogliato di qualsiasi riconoscimento o valore autonomo da quello che non siano i ruoli di madre, moglie o figlia, sempre e comunque subalterni all’autorità dell’uomo.
L’impressione che si ha vedendo la donna che guida il corteo dei sari rosa è di per sè una implicita contraddizione con le regole che vigono nella società indiana: Sampat Devi Pal, questo il suo nome, una donna analfabeta con un passato di sopruso maschile non diverso dal destino subito da tante sue connazionali (spose-bambine magari abusate da uomini molto più grandi, poi abbandonate all’isolamento e alla repressione delle proprie idee e delle proprie emozioni), ma che, ha ad un certo punto, ha deciso che “tutto questo non ha senso” e ha spalancato gli occhi sulla sua condizione e su quella delle altre donne, sancendo questa alleanza che vorrebbe spezzare e sostituirsi al circolo vizioso della violenza omertosa, della vergogna di essere e di sentire.
L’immagine di Sampat, la sua furia, l’incontenibile e debordante umanità, l’intuizione per ciò che è giusto e per ciò che è sbagliato, al di là della sua preparazione culturale o del suo pedigree sociale, hanno rievocato nella mia memoria alcune eroine del cinema che ha raccontato le grandi e piccole rivoluzioni sociali partite dal punto di vista “basso” delle donne del popolo: ho risentito in particolare l’Anna Magnani de L’onorevole Angelina e la Sally Field di Norma Rae, ognuna colta nel loro contesto storico e culturale (la miseria e la fame del dopoguerra in Italia per AngelinaAnna, la condizione dei lavoratori tessili nella provincia americana agli albori della nascita del sindacato per NormaSally), come possibile epigone di celluloide della polverosa e sanguinante realtà contro cui si batte, e nella quale vive, il corpo di Sampat. Ma Sampat non è, e non può ridursi, solo a personaggio di un racconto cinematografico; e questo non solo perchè parliamo di una storia vera. Enrico Bisi, il giovane documentarista che ha immerso il suo sguardo e si è lasciato trasportare dal flusso di sari rosa, ha tenuto costantemete presente l’aspetto di documentazione sul campo rispetto all’attività svolta da Sampat, il suo arrivare sul luogo del crimine e improvvissarsi investigatrice, monitorare il lavoro della polizia che spesso tende a derubricare i crimini compiuti dagli uomini, in particolare da quelli appartenenti a caste economiche e sociali superiori rispetto a quelle delle vittime, lo svelare i retroscena e le dinamiche familiari.
Per fare questo Sampat, e di conseguenza la mdp di Bisi, hanno la necessità di trovarsi sul posto, nel qui ed ora, e di confrontarsi con il cadavere ancora caldo della vittima: lo stupro perpetrato contro una bambina di tre anni da parte del folle del villaggio protetto dalla potente famiglia di appartenenza, o l’omicidio di una giovane moglie e madre picchiata a morte dal marito con la complicità della suocera. E l’immagine del cadavere martoriato di quest’ultimo caso, dove Sampat chiederà di poter rivelarne le percosse mortali così da poter evitare che venga classificato come suicidio, crea ovviamente disturbo e inquietudine, ma ci toglie dall’imbarazzo del ruolo in cui spesso ci ha abituati la macchina della morbosità mediatica rispetto ai casi di violenza e omicidio nei confronti delle donne.
La perversione speculatrice e cannibalesca, che si celebra nelle chiacchiere dei salotti pomeridiani o i presunti programmi d’inchiesta della nostra tv, avviene sul corpo delle donne, sulla ricerca del particolare osceno e macabro nel tentativo di sviluppare una curiosità e un accanimento che non ha nulla a che fare con la ricerca, seppur a volte sommaria, che invece sembra animare Sampat. Non siamo più voyeur eccitati e necrofili di fronte a quell”immagine di cadavere di donna, ma ci sentiamo schiacciati dall’orrore, dall’indignazione, dalla rabbia.
La forza e il limite della presa diretta di Bisi sulla vita e sulle imprese di Sampat è contenuta di conseguenza nelle contraddizzioni del personaggio stesso, che sembra non conoscere altra soluzione che non sia quella dell’occhio per occhiodente per dente, incitando la polizia a picchiare i responsabili per estorcere le testimonianze o chiamando la bambina della donna uccisa a testimoniare contro il padre sul cadavere, in questo caso ancora davvero troppo caldo, della madre.
Così, a volte sembra che Sampat, e con lei la prospettiva estetica e narrativa di Bisi, sia ancora chiusa dentro la logica della spirale della violenza e che la ricerca della giustizia e della verità si perda nell’orizzonte della rivendicazione e della vendetta. Come se nell’esuberanza e nell’egocentrismo di Sampat si risolva il destino di tutte le donne indiane e non ci sia lo spazio, emotivo e razionale, per elaborare ciò che è appena successo sullo schermo. E resta il pericolo che la forza del personaggio, oltre le migliori intenzioni del regista, abbia preso il sopravvento sulla presa diretta della realtà.