di Fabrizia Brandoni /Bella e perduta è un film di suggestioni aperte, che indaga intorno a questioni di lunga tradizione ma, come non può non essere se lo si fa davvero, nell’avvicinarsi a riflessioni antiche, porta tutta la sua sensibilità contemporanea.
Nel film infatti si racconta, ma più ancora, quasi attraverso associazioni simboliche, si riflette, sui modi dell’umanità di stare al mondo, sul rapporto profondo dell’uomo con l’ambiente, inteso come un insieme indistricabile di natura e presenza umana: ed uno dei modi di starci dentro, è quello della fiaba, del mito, della memoria…un altro è quello della Storia.
Si tratta di questioni di fondo, di nodi dell’essere e della realtà su cui tanti hanno riflettuto: Pasolini, (così presente infatti, per poetica ed immagini nello scorrere del film), Maria Ortese, (anch’essa presenza viva nel racconto di Marcello), e ancora Pavese, il cui immaginario si nutre del paesaggio, naturale ed umano, delle sue campagne, come luogo di memoria, fondativo, mitizzato, interiorizzato, opposto all’inquietudine di un presente, che prende le forme quotidiane della città. E ancora, in un modo in parte diverso, ma in fondo nient’affatto lontano, questa sensibilità ha attraversato la riflessione di certo romanticismo – Schiller e con lui altri – quando cioè si cominciava a sperimentare la frattura di quell’equilibrio secolare che aveva legato e tenuto insieme l’umanità dentro un rapporto chiaro e organico con la natura.
Ma che significa poi, interrogarsi su questioni come queste, che dette così, sembrerebbero quasi solo un’astrazione letteraria, un lusso del pensiero…e, soprattutto, che significa farlo oggi?
È il film che, attraverso le immagini, le inquadrature, le musiche, così impastate con i contenuti, e utilizzando i meccanismi narrativi della fiaba, ce lo racconta. Proviamo a seguirlo, allora.
Nella prima parte della storia ci sono i pastori: il primo è Tommaso, un uomo che, spinto da un suo profondo ed individuale desiderio, decide gratuitamente di dedicare le sue attenzioni ad un luogo umano immerso nella natura, la Reggia di Carditello, dimora dei Borboni abbandonata nella pianura di Caserta. Porta avanti quest’impresa da solo, con l’appoggio del figlio e della moglie, che però non si vedono nel film, se non quest’ultima, per un attimo, appena dopo la morte di Tommaso, ritratta con lui in un momento del passato, nella foto del matrimonio, fissato in una specie di bianco e nero che ne colloca quasi fuori dal tempo i volti e la felicità.
Tommaso nel film ci appare a tratti come protagonista di un documentario improvvisamente interrotto, non avvezzo, e a volte quasi imbarazzato, al dialogo con la macchina da presa, a suo agio invece nei gesti esperti e naturali che compie nell’universo rurale in cui è immerso. Poi ci sono gli animali, che parlano a chi può ascoltarli: un bufalo maschio, abbandonato proprio affinché qualcuno lo trovi, poiché in quei luoghi, riservati allo sfruttamento della bufala femmina, andrebbe incontro ad una fine certa, e che invece il pastore Tommaso accoglie, riconosce, cura, e ama, permettendogli così di vivere e raccontare la sua storia. Infine ci sono i Pulcinella: maschere qui, non solo della commedia dell’arte, ma più indietro, figure delle atellane romane, in cui essi avevano il potere di ascoltare i morti. Ed è proprio quello che Pulcinella, chiamato dall’alto a risalire dal luogo in cui è confinato, farà, ascoltando sulla tomba di Tommaso le sue indicazioni, per noi completamente mute, su dove portare il bufalo: sapendone, lui sì, ascoltare e comprendere la voce, tanto del morto, quanto della piccola bestia.
Questi personaggi fiabeschi, nel loro agire, appaiono filmicamente immersi in contesti potenti, chiari, definiti, che ne segnano così la condizione, l’essere: Tommaso appunto, nelle sue azioni quotidiane, all’interno di grandi campi lunghi che lo immergono continuamente nel paesaggio della pianura, geometrico, lineare, azzurro di cielo, verde di prato, chiazzato dal nero delle bufale, e dalla massa bianca della reggia, in cui tutti noi entriamo solo attraverso la sua presenza. Il bufalo, creatura fragile, bisognosa di cure, attenzioni, ritratta nel ricevere e godersi un affetto quasi fisico che i due buoni amici , incontrati grazie a una strana fortuna, con i loro gesti vivi e silenziosi, gli riservano, e il cui occhio, tanto spesso inquadrato, sembra capace di registrare quello che poi la sua voce fantastica ci racconta, (a ricordare, chissà, quello del cavallo in Lancillotto e Ginevra, la cui inquadratura ravvicinata, come di un testimone costante, ci accompagna per tutto il film di Bresson).
I pulcinella ancora, ci appaiono rinchiusi in un luogo sospeso, una specie di carcere dove, senza il dono della parola, giocano a dadi e mangiano fave, o dormono accarezzandosi il ventre, sfiorando con le mani un’immagine oleografica di loro stessi: finchè non arriva qualcuno che, tra tutti, ne sceglie uno per compiere l’impresa, provando così a dar di nuovo voce ad una presenza, a un personaggio secolare che, forse, da molto e per molti, per lungo silenzio, parea fioco.
Il loro incastro è apparentemente lineare: Tommaso il pastore, un cucciolo animale parlante della specie dei bufali, la maschera di Pulcinella…come un passaggio di testimone, il primo, morendo, affiderà al terzo la salvezza del secondo, la piccola bestia.
Ma nella prima parte del film c’è già anche la Storia: in una scena filmicamente bellissima, Tommaso attraversa con il suo furgone le proteste della terra dei fuochi. Sono immagini di repertorio, che staccano per audio e colori dal resto della ripresa: si vedono i volti, i cartelli dei morti, si sentono le voci, e qualcuno che urla di bruciare la bandiera tricolore. Tommaso attraversa la via, ma non scende: come se seguisse una strada diversa per ribellarsi a quello stesso degrado, scenderà solo dopo, quando, nel suo cammino per andare alla Reggia, incontrerà dei copertoni ed uno a uno li porterà via, poiché la sua azione quotidiana è tutta affinché Carditello non sia più una discarica, e torni a vivere..
Lo stesso accadrà a Pucinella: nel suo cammino per Carditello, la macchina da presa ce lo mostrerà per un attimo fare silenziosamente capolino tra la stessa folla devastata e poi, poco dopo, anche lui, come quasi solo sfiorato da quella massa, arrivare intatto, con il suo passo dinoccolato, al cancello dela Reggia: anche per lui, adesso, non è quella la sua storia… ne dovrà compiere una diversa.
Dopo la morte di Tommaso, (che in immagini è un bosco umido, fiabesco, e paludoso di alberi), inizia il viaggio: il lungo cammino di Pulcinella a fianco al bufalo, che li porterà a nuovi incontri. Il primo sarà il nuovo guardiano della Reggia, un uomo dello stato appunto, lo stato che ora sembra voler proseguire l’impresa di Tommaso, e per farlo intanto mette lì di nuovo una bandiera, quello stesso tricolore, insieme ad uno spaesato personaggio del nord: “Te salut Pucinela”, “Statt bbuon”… questo il loro commiato, così carico, in quei pochi suoni, di universi che non possono comprendersi, e che pure, dentro una semplicità di ruoli e di gesti, sembrano quasi riconoscersi e scambiarsi una reciproca dignità.
E il viaggio prosegue, cammina cammina, alla ricerca di un rifugio non infestato dai soliti copertoni… fino a giungere in un luogo anch’esso sospeso, un po’ fuori, un po’ dentro la Storia: un casolare dove fratello e sorella conducono una vita immobile, accompagnando le loro azioni quotidiane con uno stereo scalcinato, che suona i neomelodici, come in un basso napoletano, ma dove al primo piano, poiché quel casolare proprio un basso non è, conserva camere da letto da lungo intatte, ancora troppo piene dello spirito di genitori che sono morti, e di cui i due fratelli avvertono con soggezione la presenza. E allora di nuovo sarà Pulcinella che, ospitato con calore e naturalezza da queste facce ruvidi ed umili, con cui condividerà il pane, e una bellezza femminile che solo lui sa riconoscere, dormirà beato su quel letto, penetrando nel sonno l’incantesimo, e risvegliando il passato di quella famiglia, nelle fattezze e parole di Anna Maria Ortese. «Esiste nelle estreme e più lucenti terre del Sud un ministero nascosto per la difesa della natura dalla ragione, un genio materno d’illimitata potenza, alla cui cura gelosa e perpetua è affidato il sonno in cui dormono quelle popolazioni. Se solo un attimo quella difesa si allentasse, se le voci dolci e fredde della ragione umana potessero penetrare quella natura, essa ne rimarrebbe fulminata».
E qui, le parole che nel racconto della Ortese sono in realtà funzionali a spiegare, di quel genio, i limiti e il secolare immobilismo, sembrano invece cullare e raccontare quasi una speciale grazia di quel mondo, ed il rapporto tra l’uomo e la natura di cui parlano, nel complesso dell’intero racconto della scrittrice rappresentato quasi come imprigionato in un’atavica riluttanza ad ogni cambiamento, qui sembra quasi rivendicare il privilegio di una dimensione magica, intatta ed autentica, di cui il sonno ed una specie di avvolgente, primordiale calore sono come i tratti distintivi e inattaccabili.
Il viaggio continuerà, e Pulcinella e il bufalo, un po’ come Totò e Ninetto, scambiandosi sguardi, dialoghi, carezze con una prossimità fisica e affettiva che sta tutta nelle immagini vive di odori, di gesti, piene della consistenza fisica che in quei movimenti si trasmette, arriveranno a Tuscania, la cui importanza di citazione pasoliniana emerge proprio attraverso il movimento dell’inquadratura che, lentamente, quasi come sollevasse un sipario, ce ne scopre il profilo inconfondibile dei campanili, sulle colline di tufo.
E qui accadrà qualcosa: i nostri personaggi incontreranno un nuovo pastore, ma solo in parte della specie dei Tommaso. Egli mostrerà a Pulcinella l’albero della morte, e gli farà bere l’acqua che trasforma in uomini nuovi: un pastore che di notte va ancora dentro la terra, a cercare i tesori delle tombe etrusche, come tanti altri uomini prima di lui, mostrati di nuovo da immagini di repertorio, in bianco e nero, che rompono la continuità della storia, alternando passato e presente, così come le immagini della caccia al bufalo, e come la faccia di Tommaso, che ritorna a tratti, continua, come una presenza; un pastore che, forse proprio per questo suo rapporto di “depradazione” segreta con il territorio, con la natura circostante, che più che preservata viene a suo modo violata, non potrà esimersi dall’applicare la stessa logica utilitaristica al bufalo: quando Pulcinella glielo affiderà, (proprio fin lì, nella Tuscania di Pasolini, Tommaso gli aveva allora chiesto di portarlo!), lui lo porterà dal vaccaro, per farlo ingrassare e poi mangiarselo.
E allora il passaggio si compie: Pulcinella, credendo di aver compiuto l’impresa, si avvicina all’albero della morte e, piegatosi quasi come a covare un uovo nuovo, abbandonerà la sua maschera e da personaggio diventerà uomo, entrerà nella Storia. “Volevo essere libero, decidere io della mia vita”, dirà lui stesso, facendoci venire in mente le parole con cui il bufalo ce lo aveva all’inizio presentato: “La fortuna mi ha fatto incontrare un altro buon amico…insieme condividiamo la condizione di servi: io degli uomini, lui degli immortali”.
Ma forse c’è un costo che questa scelta comporta: Pulcinella-uomo andrà dalla donna, da quella donna incontrata nel casolare di cui aveva intuito la grazia dietro la stanchezza, le stringerà teneramente le mani, e forse la amerà…ma non riuscirà più ad ascoltare la voce del bufalo, e così non potrà salvarlo. Nella sequenza delle immagini, subito dopo aver visto il suo viso sereno ed elegante, soddisfatto, senza maschera, si presenta di nuovo quello quasi angelico di Tommaso e poi…e poi quello un po’ volgare di una donna bionda, e insieme al suo quello di tanti altri, che in abiti borghesi calpestano disordinantamente il prato, il giorno dell’inaugurazione della Reggia. “Carditello deve vivere”, diceva Tommaso…ed ora, forse, come Pulcinella, la Reggia vive…ma come? A quale prezzo?
Seguirti nella realtà era impossibile. I sogni e le fiabe debbono raccontare la verità, dice il bufalo al suo Pulcinella, quando si dirige ormai verso gli astri, verso quella morte maledetta cui ormai, non può più sfuggire, caricato sul furgone che lo porterà al macello.
E sembra questo, il nodo che il film suggerisce e che non scioglie, che le immagini hanno evocato, sembra questo il discorso, (o almeno uno dei possibili), che nel dipanarsi della visione si è piano piano, come in filigrana, dispiegato: che relazione sa istaurare oggi l’umanità con ciò che la circonda, e quindi anche con se stessa? Di che sguardo è capace verso ciò che, nella natura, ha costruito, di quali “valori” è portatrice? Colpisce che, tra l’indagine su chi, in quelle terre martoriate, ha ad un certo punto provato a dare voce alla propria disperazione, e la vicenda di Tommaso, l’interesse del regista si sia concentrato su quest’ultima, e sulla volontà di raccontarla attraverso la fiaba: eppure è chiaro, e questo il film certo non lo nasconde, che nascono entrambe da uno stesso slancio, uno stesso tentativo di riscatto. Ma nel percorso di Tommaso, e poi di Pulcinella sua figura, c’è un legame con la realtà fatto sostanzialmente di passato, di un attaccamento istintivo a pratiche e relazioni arcaiche, di un modo di stare nelle cose che non appartiene più al mondo così come oggi si è trasformato…un esistere non contemporaneo appunto, fuori dalla Storia. E che pure conserva la capacità di costruire un immaginario, un orizzonte, un senso possibile, benché irrimediabilmente perduto, che forse colpisce oggi tanto più di ieri, proprio perché quel mondo in trasformazione non è stato in grado di individuare un nuovo possibile equilibrio, di costruirne altre di modalità, di ripensarla quella relazione, praticando così una sua idea di bellezza. L’attaccamento a quel passato allora, che appare quasi come un rifugio, viene raccontato non tanto con i tratti del manifesto programmatico, dell’alternativa da seguire, ma con i toni dell’elegia, di una specie di struggimento per ciò che, in quanto perduto, non può che rivivere, se deve, nell’universo simbolico della fiaba. Ed in questo, le musiche stesse, anch’esse rigorosamente espressione di quel mondo, risuonano di sospensione e di drammaticità: come la grazia discreta del clarinetto che accompagna, insieme a lunghi piani sequenza, il viaggio sommesso e rallentato dei nostri personaggi, o la voce di Giuseppe Di Stefano, che sale vorticosa come la colonna di fumo nero che turbina alta dalle discariche, in una dolorosa esecuzione di Fenesta che lucivi, il cui testo è anch’esso così legato all’immagine del sonno e della morte.
Quanto della riflessione di Pasolini si possa ritrovare in questa narrazione, nelle immagini e nell’ispirazione, non è allora il caso di sottolineare: anche perché davvero, come si diceva all’inizio, uno degli aspetti più forti del film sta nel restituirci una riflessione che parte da uno sguardo contemporaneo, da una sensibilità che ha i segni e lo spessore di questi anni, tanto più interessante se si considera che all’anagrafe, il regista stesso, appartiene ad una generazione cresciuta più di altre in un orizzonte di progressivo arretramento, di sconfitta della possibilità trasformativa della dimensione politica e sociale, e insieme anche ultima a conservare, per storie personali e familiari, un legame vivo con tutto un mondo oggi ormai scomparso.
Ma dentro quella malinconia, il film forse, potrebbe anche volerci ricordare di quel passato, che è diventato racconto mitico, per mantenerlo come riferimento possibile, come tratto di una memoria, di un’ appartenenza, avvertendola viva dentro e intorno a noi, ricordandoci del sonno fuori dal sonno, nel momento in cui viviamo il presente, e cerchiamo di costruire il futuro: come Pulcinella, per il cui passaggio alla vita vera il bufalo compie il suo sacrificio, e come Tommaso, la cui dedizione ha reso possibile la vita nuova della Reggia… come a dire che, se quell’innocenza è destinata ad essere bella, ma perduta, lo stesso sarà dell’esistenza nostra, e della terra in cui ci è toccato vivere.
Per il lavoro sulle immagini, per lo spessore simbolico, per il rigore complessivo, Bella e perduta è certamente un film raro, complesso, e per questo coraggioso: un film in cui la dimensione poetica contiene quella riflessiva, permettendo così di fare esperienza di quella speciale commozione, che smuove le emozioni, e insieme il pensiero.