Perchè sì |
Perchè no |
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di Sergio Ponzio A parte per la lunghezza francamente eccessiva, il film di Uli Edel, regista del cult generazionale Christiana F, pur non esente da palesi ingenuità e approssimazioni narrative, rappresenta una lezione su come sia ancora possibile coniugare impegno e spettacolarità, nel cinema europeo contemporaneo. Der Baader-Meinhof Complex ricostruisce con un certo rigore filologico, l’intera parabola delle azioni targate Rote Arme Fraktion, gruppo combattente d’ispirazione maoista-leninista fondato nel ’70 da Ulrike Meinhof e Andreas Baader, a cominciare dal duro addestramento militare in Giordania con i palestinesi, passando per le prime spettacolari azioni di guerriglia urbana rivendicate dal gruppo, fino ad arrivare all’arresto e al presunto suicidio di alcuni dei suoi fondatori, mentre fuori dalle mura del carcere le seconde e terze generazioni, senza più guida né progetto politico, tentano gli ultimi disperati colpi di coda. Il cinema tedesco, dopo una stagione prolifica a ridosso degli stessi fatti accaduti, in cui hanno visto luce opere fondamentali per rigore e lucidità intellettuale come La terza generazione di Fassbinder, il film collettivo Germania in Autunno, e soprattutto Anni di Piombo della Von Trotta, si è concesso una pausa di riflessione durata quasi trent’anni, prima di riannodare le fila interrotte di un discorso sulla lotta armata. A questo punto potrebbe apparire un paradosso che Fassbinder e compagni del Neueu Deutche Film, immersi fino al collo nell’habitat culturale politico di quegli anni, abbiano dimostrato un’inclinazione all’analisi e una maturità autocritica che in Der Baader-Meinhof Complex appare pressocché assente. Per quale ragione in sostanza, quegli instant film d’autore, realizzati mentre ancora si sparava per le strade, sembrano possedere uno sguardo distaccato improntato alla ricerca di una verità profonda, per quanto lacerante, mentre oggi, nel film di Edel, assistiamo alla ricostruzione dinamica e adrenalinica di una successione di azioni armate, raccontate con disinvoltura teorica e indubbia efficacia spettacolare? La risposta va cercata nello spirito stesso degli anni ’70, in quel coacervo di spinte contrastanti, tra intellettualismi atrofizzanti e azionismo libertario che ha caratterizzato i cosiddetti anni di piombo in diverse società europee. Dopo un decennio di sconvolgimenti sociali a perdifiato, in cui la dinamica rivolta-reazione aveva innescato una spirale ininterrotta di violenza che pareva divenuta endemica nello stesso immaginario collettivo, era parso necessario agli intellettuali più sensibili, contigui al movimento rivoluzionario, fermarsi a riflettere, guardarsi indietro. Rimanendo saldamente e coerentemente nel campo rivoluzionario, immuni alle sirene borghesi che avvaloravano la tesi degli opposti estremismi, si cercava insomma di correggere il tiro, di rimettersi in discussione come avanguardia intellettuale, tentando di riallacciare il rapporto con i frammenti di una classe operaia in piena crisi d’identità, tra l’impossibile identificazione con la lotta armata, e il miraggio propagandato dell’imminente benessere consumistico diffuso. Altrettanto condivisibile ci sembra oggi la provocatoria scelta di Edel di scrollarsi di dosso i residui d’ingombranti apparati teorici e di rinunciare a qualsivoglia pretesa falsamente riconciliatoria. Soprattutto nel film sulla banda Baader-Meinhof manca quella pelosa, subdola tendenza del cinema italiano recente, alla Meglio gioventù per intenderci, di voler mettere tutti d’accordo in un ecumenico abbraccio. Vittime della violenza di stato e vittime della lotta armata, parenti dei caduti da una parte e dall’altra, quasi che il cinema potesse riuscire nell’impossibile impresa di aprire e chiudere a comando pagine di una complessa memoria storica, quando le ferite del conflitto di classe ancora bruciano e la pretesa caduta delle ideologie si è rivelata il sommo grimaldello ideologico di un capitalismo neo-feudale senza più argini. Formalmente si tratta di un film marinettiano, avanguardista, che viaggia sulla scia di una successione vorticosa di spinte propulsive. L’andamento è implacabile. L’inazione non è contemplata, né rimane spazio per la riflessione. Prima il ritmo è scandito dalle manganellate socialdemocratiche della polizia, giornalisti embedded del gruppo editoriale Springer al seguito, contro l’irriducibilità del corpo-massa dei cortei studenteschi; poi è l’implacabile body count annunciato alla televisione di politici progressisti e militanti dei diritti civili, falciati sotto i colpi della repressione mondiale: Martin Luther King, i Kennedy, Che Guevara. Infine saranno le detonazioni rivoluzionarie dei simboli del potere, i colpi di arma da fuoco contro i servi del capitalismo, in una spirale sempre più deterministicamente definita dalla paranoia progressiva dei suoi protagonisti fino all’inevitabile vicolo cieco. In questa scelta compositiva del film, l’aver ceduto al richiamo della violenza non appare più come un passaggio oscuro e indecifrabile che produce mostri di spietatezza, ma piuttosto come l’esito disperato di una domanda di trasformazione sociale soffocata su individui umani troppo umani, talvolta dalla spiccata sensibilità e generosità, spesso egocentrici e narcisisti, sempre comunque ossessionati dalla necessità compulsiva di passare all’azione ad ogni costo, quasi che l’agire fosse esso stesso intrinsecamente rivoluzionario. Edel allarga l’inquadratura in una serie di rapidi scorci, a mostrarci l’orizzonte degli eventi, il brodo reazionario interno e le contingenze internazionali da cui scaturirà la consapevolezza, all’interno di alcune avanguardie politiche, della necessità di rispondere alla violenza di un sistema considerato endemicamente fascista, con la violenza della lotta armata, eletta a forma estrema di giustizia sociale. Indicativa la sequenza in cui due terroriste, dopo aver piazzato l’ordigno all’interno della redazione dello Bild-Zeitung, si allontanano con passo deciso dal palazzo senza mai voltarsi. Se solo questi ragazzi e ragazze si fossero girati indietro, forse si sarebbero resi conto che non c’era l’intera classe operaia a seguirli. Ma non c’era tempo, sembra suggerirci Sedl. La Storia stava procedendo ancora più veloce che quella miccia innescata. |
di Giovanna Quercia La lettura degli anni ’70 come decennio catalizzatore di tutti i nodi irrisolti dei vari processi di emancipazione, nella recensione a fianco di Der Bader Meinhof complex, è molto interessante. Ed illuminante è anche la descrizione dello spirito di questo decennio, diviso tra azionismo dirompente e intellettualismi più o meno sterili: peccato però che tutto questo non venga affatto fuori dal film! Magari Uli Edel, infatti, mentre decideva di sottoporci al fuoco di fila ininterrotto, paratattico e rigorosamente cronologico delle azioni delle “Br tedesche”, ci avesse anche fornito, nel frattempo, una sua chiave di lettura del fenomeno e del contesto storico; magari avesse seguito una sua intuizione personale anche non ortodossa esprimendo i sentimenti contraddittori, prima di fascinazione, poi di delusione, che lui come tanti altri aveva provato da giovane nei confronti della celeberrima banda armata… Abbiamo visto invece una successione di sequenze, tutte ben girate e fortemente spettacolari che, se hanno il merito di informare sui fatti e le azioni, non rivelano però nessun pensiero retrostante, non restituiscono un clima generale, non pongono domande, non richiedono alcuno sforzo di comprensione. Se le terroriste nel film, giustamente dal loro punto di vista, non si voltano mai per vedere se qualcuno le sta seguendo, non ci sembra altrettanto corretto che non lo faccia mai neanche il regista, che rappresenta le loro azioni più di 40 anni dopo. Forse, mi si ribatterà, si tratta allora di un film che sposa il punto di vista dei terroristi e ci racconta i fatti dalla loro ottica soggettiva: ma no, neanche questo si può dire perché di tanto in tanto, a sprazzi, salta fuori l’antagonista, ovvero un simpatico capo della polizia interpretato da Bruno Ganz, filosofo e intellettuale, che riesce a farli cadere con la tattica del veleno per topi (un veleno che, notoriamente, costringe i topi a evadere dai loro nascondigli…): presenza simpatica e ben disegnata, ma troppo sporadica per fungere da vero contrappunto alle azioni e alle dinamiche dei terroristi. L’assenza di qualunque scavo psicologico dei personaggi protagonisti, poi, blocca il passo a qualunque sentimento, seppur contraddittorio, di empatia o identificazione: Andreas Baader, Gudrun Ensslin, Ulrike Meinhof, che vediamo all’azione per tre ore, rimangono sostanzialmente degli sconosciuti, delle maschere di cui conosciamo soltanto il volto pubblico. Nessun lume sulle loro ragioni personali. In questo senso siamo agli antipodi di Anni di piombo. Forse, come scrive Sergio Ponzio, il film voleva solo assestare una buona dose di cazzotti nello stomaco, però il regista in questo caso ha ignorato quella legge fondamentale del ritmo che impone l’alternanza di vuoti e pieni, affinché questi ultimi possano risaltare in tutta la loro potenza. Se a succedersi sono invece solo momenti clou, scene adrenaliniche ad alto tasso di violenza, senza soluzioni di continuità e senza pause, alla fine lo spettatore abbassa il livello di attenzione e percepisce comunque uno spettacolo piatto, nonostante l’iperstimolazione a livello sensoriale. E’ questo che può succedere guardando Der Baader Meinhof complex – soprattutto considerando la sua durata di due ore e mezza – ed è un vero peccato. Prevale purtroppo la sensazione che l’exploitation commerciale sia stato il movente fondamentale, che si tratti di un film molto postmoderno che usa cinicamente gli ingredienti a tinte forti di questa storia vera e dolorosa, per farne uno spettacolo rutilante e colorato, un bel giocattolo da esportazione. |