[*] – Di tanto in tanto, a cadenza periodica, fa capolino al cinema un nuovo film sulla danza, e talvolta scolpisce l’immaginazione giovanile affermandosi con la forza di un cult. Be’, non è questo il caso. A partire dal titolo, Ballare per un sogno è una telefonatissima collezione di cliché, tanto banali e usurati da sconfinare nell’autoparodia. Non che faccia ridere: non volontariamente, almeno. Racconta la storia della giovane orfana Lauryn, che sogna di diventare una ballerina e va in cerca di fortuna nella grande Chicago. Riuscirà ad affermarsi e a trovare l’amore solo dopo aver fatto gavetta al Ruby, un locale notturno che spopola proponendo (castigatissimi) balletti sexy–glamour.
La trafila di luoghi comuni parte dal rifiuto della protagonista di occuparsi dell’azienda di famiglia per inseguire il suo sogno; procede con la sindrome di Cenerentola fra le sensuali sorellastre che danzano al Ruby; culmina con l’audizione finale di fronte al burbero selezionatore della scuola di ballo. Mai un elemento nuovo, un particolare, turbano l’elementare intreccio. A ingolfare le scene si intromettono poi i tremendi “momenti tristi” – durante i quali Lauryn piange miseria, perché se si dedicherà al ballo papà si rivolterà nella tomba – e quelli “romantici”, in cui la ragazza rimorchia il dj Russ, dal look misteriosamente anni ‘80. Più vivaci, almeno, gli stacchetti musicali, un mix di danza e spogliarello, in cui però il montaggio non riesce a nascondere la modesta resa delle ballerine.
Un film del genere, per funzionare, avrebbe dovuto essere trascinante, lavorare sui dettagli, le tecniche di ballo, la competizione, e soprattutto costruire una qualche figura credibile di antagonista: qui si vogliono tutti bene dal principio alla fine, tranne forse Carmen, la sensuale “star” del Ruby, che conta come il due di briscola ed è oggetto di una conversione finale drammaturgicamente indecente. La Winstead, nei panni di Lauryn, perde ogni traccia della conturbante ambiguità mostrata con Tarantino in Grindhouse. Il regista Grant non rischia nulla e nulla inventa. Lascia che tutti sorridano in continuazione, e osa qualche zoom sulle cosce e i fondoschiena delle ballerine quando le palpebre in sala minacciano di chiudersi definitivamente: ma non lo fa nemmeno abbastanza, in verità, e la definitiva assenza di pepe finisce per imporre la visione del film solo alle ragazzine sotto i tredici anni.