Viaggio costosissimo e paesaggisticamente straordinario verso la propria terra, conosciuta e ricostruita a mente, a fantasia, per desideratissimo gioco, atteso e guadagnato. Viaggio (sulle montagne russe) verso la propria vita e quello che c’era prima, verso la propria ricorrente sicilianità. Tempo variabile, dal sole accecante che brucia uttecose a temporali improvvisi, potenti come chiodi affilati sulla terra secchissima. Più montagne e campagne che mare, attenzione alle mine, ai bombardamenti notturni a metà strada, ai mafiosi, ovviamente, perché comunque comandano loro, osservano loro, e decidono loro uttecose. Poesia del ricordo, in Baaria, pomposa, vorticosa e smisurata, mitologia delle origini, delle radici, fatta con lo strumento che più di ogni altra cosa sviluppa la creatività e la capacità espressiva di Giuseppe Tornatore: il cinema classico, visibilissimo nell’andatura e nei muscoli, inclassificabile nella generazionalità. Cinema visto, amato e sognato da sempre dal regista, più che mai Peppuccio, oggi, dopo questo film paesano di vacche e vicoli, di volti e dialetti, di piazzette, democristiani, polvere gialla su tutto, strilli, corse e pian terreni adibiti a negozio o abitazione, a contatto stretto con la terra e con le bestie, pascolate ed ammazzate.
Affresco corale con un paio di protagonisti davanti a tutti, bravi e belli, ma discreti di fronte ai cento attori navigati che gli mostrano talento e professionalità. Tanti bambini, giochi, corse, pazzi, veggenti, comunisti, personaggi a go go, una festa di figure gestite a gag, non a battute uniche, una pennellata e via, come Fellini, una cosetta soffiata alla macchina da presa, ma una trentina di secondi, un minuto: Sperandeo, Burruano, Aldo Baglio, Bellucci, Faletti, Finocchiaro, Placido, Salemme, Gullotta, Chiatti. Un minuto che qualche volta ritorna e riporta sulla scena per un attimo ancora Luigi Lo Cascio (è bona a zzita), Nino Frassica, Lina Sastri, Enrico Lo Verso. Oppure un minuto che si trasforma in una vera e propria piccola parte: Ficarra e Picone, moderni fantastici Franco e Ciccio, Beppe Fiorello, Accatta i dollari.
Bello, Baaria, esplosivo, maratoneta col cambio di passo: strategia discutibile, di corsissima all’inizio, per mezz’ora non si respira. Poi rompe il fiato, allenta un attimo la morsa e parte una narrazione più accessibile, lineare. Lunga, mai perfetta ma mai noiosa, godibile, a tratti sfuggente, gonfia e slegata, visionaria e bozzettistica, in certi momenti onirica, a parecchi gradini dal capolavoro. Manca la grande emozione, quella del cinema paradiso, manca la tristezza dell’Uomo delle stelle, bocciato con troppa fretta, regna il divertimento e si affaccia la malinconia. Se la spassa il cinema, banchetta come poche volte accade in Italia, ma perde l’occasione, in parte, per farci reclamare una tradizione italiana di questo tipo. Gli fa compagnia la storia, quella con la S Maiuscola: “Portella della ginestra”, 1947, l’occupazione delle terre, le manifestazioni del ’60. Memorabile, a proposito, la scena (in stile Salvatore Giuliano) in cui l’ottimo Scianna elenca al cronista Raul Bova i luoghi e i nomi dei sindacalisti uccisi dalla mafia. E gli fa compagnia quella con la s minuscola: Mina e le sue mille bolle blù in tv, 1961, Guttuso, Lattuada e Sordi che girano Mafioso, trovata fantastica, ennesimo omaggio del regista al cinema italiano popolare e splendido.
Film da rivedere, Baaria, più per meglio cogliere i passaggi e l’impianto, che per essere emotivamente colpiti di nuovo. Qualche momento è eccezionale davvero, più del film barocco e popolare tutto, solo a tratti retorico alla Meglio Gioventù o alla Cento passi, più spesso piacevolmente storico, perché sorretto da un’idea di cinema decisa, mai messa in discussione da problemi di costo. Racconto della nostra sinistra, del pubblico e del privato del nostro Novecento, già reso cinema molte altre volte, ma non al punto da far sentire inutile e indigesto questo film attento soprattutto a se stesso, a colpire e stupire, talmente tanto che si sente un eccesso di narcisismo, perdonabile per la personalità significativa dell’opera. A prenderne i frammenti, nel gioco di renderli autonomamente significativi, si raggiunge quasi un’ora di roba. Umoristici alcuni, epici altri, e chi s’accontenta gode, parecchio.
Bravo Edoardo, concordo come al solito con la tua bella nota,a me il film è piaciuto assai, ma aggiungerei, come non farlo…., un plauso per l’attenzione di Tornatore al mutamento del territorio, con la inquadratura iniziale della piccola Bagheria degli anni trenta arrivando poi al disordine urbano della città odierna,attraverso l’assessore all’urbanistica cieco – senza occhi per vedere il territorio non si fa neppure la fatica di non vedere il degrado urbano che quando arriva ha sempre un’immagine potente. Sino alla malinconia del protagonista che invece gli occhi ce li ha per guardare in faccia sia il figlio, sia la “nuova” Bagheria che gli consegnerà.