di Giovannella Rendi /Che fare lo sceneggiatore a Hollywood potesse avere esiti nefasti, lo avevamo scoperto già un quarto di secolo fa quando Barton Fink trionfò a Cannes 1991 e fece conoscere anche ai cinefili europei i Fratelli Coen. Difficile dimenticare quel corridoio dell’albergo che sembrava non avere fine, la zanzara sul braccio della ragazza che pare addormentata, le fiamme che deflagrano al grido di “Heil, Hitler” di quello che fino ad allora era sembrato un simpatico ciccione. Uno splendido incubo kafkiano, destinato a fare storia, che rielaborava, giocandoci, i canoni del noir e allo stesso tempo, malgrado la feroce satira del film sul wrestling, rendeva omaggio ad un modo di fare cinema che non esiste più.
Sceneggiatori intellettuali, ebrei, comunisti (e frustrati come tutti gli sceneggiatori al mondo), pur se in un registro completamente diverso, li ritroviamo anche in Heil, Caesar che già dal titolo e dall’assenza di titoli di testa (che un cartello ci dice devono essere ancora montanti, così come la scena dell’apparizione divina) svela intenti dichiaratamente parodistici e l’invito a non prendersi troppo sul serio: invito assolutamente fittizio, data la serietà con cui i due spocchiosissimi Coen calibrano sempre ogni fotogramma dei loro film. Qui, come nel caso del Grande Lebowski, siamo sul versante del divertissement di altissima scuola: un omaggio al cinema di genere del dopoguerra americano, quello delle Esther Williams e dei Gene Kelly e dei Randolph Scott di serie b ma sempre e comunque a servizio del pubblico, mai visto con condiscendenza come massa ignorante ma invece come un cliente che ha sempre ragione, a cui bisogna fornire il meglio del meglio.
Dietro allo scintillante star system (costituito sostanzialmente da una pletora di idioti ) brulica l’incessante formicaio degli addetti ai lavori, migliaia di segretarie, montatrici, attrezzisti, operatori, esperti legali, di cui nessuno saprà mai il nome. Tra questi un misterioso individuo, Eddie Mannix, interpretato da Josh Brolin, mediatore tra cielo e terra, tra l’invisibile e ricchissimo produttore newyorchese e gli idioti e le formiche di cui sopra, una specie di mr. Wolf che risolve sempre i problemi, anche se con metodi non sempre ortodossi. Talmente coscienzioso da riunire un prete cattolico, un pope ortodosso, un pastore protestante e un rabbino per avere il loro nulla osta sulla sceneggiatura di un film dedicato a Gesù Cristo, affinché nemmeno un singolo americano possa sentirsi ferito nella la sensibilità religiosa . Inutile dire che si tratta di una delle sequenze più esilaranti del film, insieme a quella della comparsa che interpreta Gesù Cristo, di cui si vedono solo i piedi – puro “Coen’s touch”, benedetto da lassù da Billy Wilder e Lubitsch (nel cui Vogliamo vivere uno svogliato Hitler rispondeva al saluto nazista dei suoi ufficiali dicendo “heil for me”).
Il vero nume tutelare dei fratelli terribili è però il regista Preston Sturges, grande artigiano del cinema americano dell’epoca, cui avevano già reso omaggio indirettamente in Fratello, dove sei? che non a caso è il titolo del romanzo da cui vorrebbe trarre un film il protagonista de I dimenticati, celeberrima commedia di Sturges. Un film girato nel 1941 che si apre con una dedica “a tutti gli uomini buffi e i clown che hanno fatto ridere la gente” e che dietro l’esilarante denuncia del cinismo del sistema produttivo hollywoodiano ricorda come, in tempi difficili, la fabbrica dei sogni aiuti a ridere e a evadere, come le “piccole commesse” di Krakauer che sognano milionari e principi esotici, o Cecilia, la protagonista de La rosa purpurea del Cairo, cui non verrebbe mai in mente di andare a vedere un dramma sui minatori.
Per catapultarci nella fabbrica dei sogni, anche se da dietro le quinte, i Coen non badano a spese e ricostruiscono enormi e sfavillanti set, sia per il “loro film” che per tutti i teatri di posa dove si affaccia Eddie Mannix nelle sue faccende, ognuno una porta aperta su una citazione cinematografica, con coreografie natatorie, acrobazie da cow boys, numeri di tip tap e di musical, in una perfetta estetica di genere, dietro cui possiamo facilmente immaginare un enorme lavoro di altissima professionalità, confermato peraltro dalla lunghezza dei titoli di coda.
Sono tempi duri anche questi, e per fortuna c’è sempre un clown disposto a prendersi una torta in faccia pur di farci ridere. E il pubblico, divertito e commosso, ringrazia.