Chi non ha visto Un prophète (http://www.un-prophete-lefilm.com/) ma ne ha letto su Repubblica, quando il film ha esordito a Cannes, in maggio, si sarà fatto probabilmente l’idea che si tratta di una denuncia, sia pur cinematografica, delle condizioni insostenibili del carcere, in particolare in Francia (ma in Italia non è che la situazione sia diversa, basta riguardare le cronache di quest’estate).
Ecco, no, la pellicola di Jacques Audiard, in sala in Francia dal 26 agosto, non è questo. E’ un noir, o una gangster story, sottocategoria “thriller carcerario”. E anche se la prigione non è solo il fondale del dramma, quella che si racconta è soprattutto la capacità di sopravvivenza e il genio, sia pur criminale, di un giovane carcerato.

In breve: Malik El Djebena (il giovane Tahar Rahim al suo esordio come attore principale) entra 19enne in carcere per scontare una pena di 6 anni. Non avendo alcun legame, né dentro né fuori il penitenziario, finisce nelle grinfie di una accolita di banditi corsi (capitanati dall’attore teatrale Niels Arestrup) che lo usa prima per compiere un omicidio, poi, di fatto, come famiglio. Ma il ragazzo è molto più sveglio di quello che si intuiva in un primo momento, e si vendicherà compiendo un’impressionante scalata criminale dentro il carcere destreggiandosi tra corsi, islamisti, bande di spacciatori e guardie carcerarie.

Non lasciatevi ingannare dallo stile: riprese da documentario, rapidità da action movie in altri passaggi, sfumature oniriche in altri tratti, scelte musicali da compilation, violenza spettacolarmente impressionante in un paio di occasioni, ma alla fine Un prophète ha un plot piuttosto classico, con personaggi quasi archetipici – il boss Cesar Luciani, il capo dei fondamentalisti, il boss della mala araba di Marsiglia, il capo dei secondini, l’amico in fondo buono, che morirà: non si può essere buoni e cattivi, bisogna scegliere – e non è per forza un demerito.

Il film è parlato in tre lingue: un francese che a tratti si fa arduo da comprendere, quello della banlieue, l’arabo e il corso (un corso divertente, a dire il vero, perché parlato con un forte accento francese da attori che non sono isolani, come è il caso di Arestrup, di origine danese). Varrebbe dunque la pena di vederlo coi sottotitoli per apprezzare le sfumature, ma sarà difficile probabilmente riuscirci.
In quanto alla questione carceraria, lo stesso Audiard aveva detto a maggio: volevo girare un thriller, non fare un documentario sociale o attaccare il sistema carcerario. Anche se il suo film è uscito qualche settimana dopo le violente proteste dei secondini per le condizioni di lavoro (e di vita) nelle carceri. E forse proprio dalla coincidenza di tempi – anche se sono anni che la Francia deve far fronte al problema – che qualcuno ha preso facilmente il film per una denuncia. “Ma non mi interessava denunciare alcunché, mi avrebbe portato da un’altra parte. Volevo davvero fare un film di genere con attori che non erano noti… qualcosa come ‘L’uomo che uccise Liberty Valance’ (http://it.wikipedia.org/wiki/L%27uomo_che_uccise_Liberty_Valance) senza John Wayne”.

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