Attraversamenti e dispositivi: spazio, genere e potere in Anora

Vincitore del premio per la Miglior Sceneggiatura agli Oscar 2025 per Sean Baker, Anora è in un dispositivo di scrittura che utilizza un metodo etnografico. L’approccio etnografico permette al film di avere un rapporto diretto con i contesti, raccogliendo storie di esistenze attraverso strategie proprie dell’etnografia urbana: l’osservazione diretta delle dinamiche corporee delle sex worker nello spazio urbano. L’etnografia urbana è un metodo chiave per comprendere come gli spazi urbani vengano percepiti, vissuti e trasformati dai corpi in movimento. L’esistenza di Ani — Mikey Madison — è una traiettoria nomade, segnata dal transito tra zone di precarietà e spazi di privilegio, tra margini urbani e spazi di potere capitalista.

Questo metodo conferisce ad Anora una qualità incarnata, in cui i movimenti corporei della protagonista diventano strumenti di negoziazione spaziale. La macchina da presa registra ogni respiro, ogni tensione muscolare, ogni tattica di fuga, sopravvivenza, scrutamento, urla o resistenza. È attraverso questa lente che il film trasforma l’attraversamento degli spazi urbani in un dispositivo politico e materiale, rendendo visibili le estetiche e le politiche del movimento.

Questa metodologia di scrittura visiva restituisce Anora come un’esperienza ritmica e corporale che interagisce con gli spazi urbani attraverso il suono, la musica, il montaggio  e i movimenti di camera. Qui il cinema si fa spazio vissuto, un atto di embodiment che sviluppa un’interazione dinamica tra corpi e spazi, tra strutture di potere e tattiche di sopravvivenza.

Leggere Anora attraverso questa lente significa riconoscere il suo valore non solo come narrazione, ma come politica dell’attraversamento urbano delle soggettività molteplici: il film si muove dentro e contro le dinamiche patriarcali della città, disegna traiettorie di resistenza, rende visibili quei processi di soggettivazione che si attuano attraverso lo spazio e il tempo. Da questa prospettiva, Anora è un cinema che non offre un punto di vista pacificato, ci tiene sulla soglia, ci spinge a negoziare la nostra posizione, stimola un ingaggio auto-etnografico, lavorando trasversalmente tra osservazione e partecipazione, tra esperienza diretta e costruzione narrativa.  

La sua protagonista, giovane sex worker di Brooklyn Ani, lavora in un club di Midtown Manhattan, incontra e sposa il figlio di un oligarca russo, Aleks. Quando la notizia raggiunge la famiglia del ragazzo, il film si sviluppa in una serie di eventi volti ad annullare il matrimonio. Ma più che raccontare una storia d’amore, Anora mette in scena un sistema di dispositivi economici, spaziali e sessuali che regolano le relazioni nel capitalismo e il potere del matrimonio, che diventa l’ennesimo confine da attraversare, un nuovo territorio da decostruire. E in questo senso, il film non è solo un ritratto individuale, ma una cartografia perturbante. 

In Sex Zoned! Geografie del sex work e corpi resistenti al governo dello spazio pubblico, Serena Olcuire evidenzia come i continui tentativi di rimozione delle sex worker dalla strada rispondono a un meccanismo psichico e politico di rimozione del perturbante (unheimlich). Freud definisce perturbante ciò che, pur essendo familiare, riemerge in una forma distorta e inquietante, generando spaesamento e angoscia. Applicando questa lettura allo spazio urbano, il sex work viene considerato disturbante non solo per ragioni morali, ma perché rende visibile un sistema di scambi economici, sessuali ed emotivi che la società preferirebbe occultare. Le sex worker non sono solo soggettività marginalizzate: esse esistono in un confine precario tra ciò che la città tollera e ciò che essa espelle.

La politica del decoro urbano si configura così come una rimozione collettiva dei corpi perturbanti, trasformando la città in uno spazio di esclusione. Il decoro viene associato a comportamenti e sembianze ritenute “appropriate”, entro i limiti della norma. In questo modo, la città si costruisce attraverso una selezione delle presenze ammissibili, operando una sottrazione dello spazio ai corpi ritenuti scomodi.

L’ossessione per la rimozione delle sex worker dallo spazio pubblico non riguarda solo una questione di decoro, ma si iscrive in una lunga tradizione di disciplinamento della sessualità. La “messa al daspo” delle pratiche sessuali non riproduttive, è così illustrata da Federici in Caliban and the Witch

“The witch trials provide an instructive list of the forms of sexuality that were banned as ‘non-productive’: homosexuality, sex between young and old, sex between people of different classes, anal coitus, coitus from behind (reputedly leading to sterile relations), nudity, and dances. Also proscribed was the public, collective sexuality that had prevailed in the middle ages” (Federici 2014: 194). 

L’addomesticamento del matrimonio e lo spazio della casa

Le aree in cui vivono le sex worker spesso si sovrappongono a zone di infrastrutture pesanti (ferrovie, autostrade, snodi di trasporto), territori transitori che posizionano le vite precarie nella struttura urbana. Lo spazio abitativo rivela le dinamiche della marginalità urbana e della precarietà abitativa che caratterizzano le esistenze di molte lavoratrici sessuali. Ani dorme in una casa che trema al passaggio dei treni, con le bende sugli occhi per poter riposare di giorno tra un turno e l’altro. La casa non ha una vista privilegiata, nessuna apertura su un paesaggio, ma solo un muro di infrastrutture. 

L’arco narrativo di Anora è segnato dal passaggio da uno spazio regolato dalla contrattualità (quello del lavoro sessuale) a uno spazio di subordinazione istituzionalizzata (quello matrimoniale). Questo spostamento non è soltanto individuale, ma si inserisce in una più ampia riflessione sulla regolazione della sessualità femminile attraverso forme di scambio economico e di accesso alla sicurezza materiale.

Il matrimonio diventa anche un istituto per stabilire nuovi patti materiali. Se Anora è un film di spazi e corpi, allora il matrimonio, al suo interno, non è altro che un dispositivo di controllo e reclusione, il passaggio da una condizione di autonomia e controllo—seppur precaria e connessa al lavoro di sexwork di cui contratta i diritti in modo attivo—verso un nuovo sistema di norme, dove il potere sulla sessualità le viene sottratto.

Il film mette in scena il movimento di Ani da “sex worker a donna sposata”, ma questo passaggio non è né lineare né privo di tensioni. Se nella prima condizione Ani esercita un controllo chiaro sulla propria sessualità—dettando le condizioni della penetrazione, negoziando il tempo, il prezzo e lo spazio dell’incontro—nel matrimonio questa agency si dissolve, sostituita da una forma più sottile e pervasiva di subordinazione. Il matrimonio come contratto materiale e sessuale garantisce protezione in cambio di una perdita del controllo su di sé e una immersione nel sistema di regole sociali imposte dalla riproduzione di classe conservativa dei privilegi familiari di Aleks.

Nella sua condizione di sex worker, Anora detiene un potere di negoziazione: il tempo ha un valore, il sesso è mediato da dispositivi di protezione (preservativi, spazi delimitati, regole chiare limiti negoziati). Lo spazio del sex work può essere ripercorso come riproduzione del domestico. I locali chiusi del club ricalcano l’architettura domestica: corridoi, stanze private, luoghi che ricordano la casa ma che sono, in realtà, spazi di gestione del sesso. Uno spazio al confine tra l’accessibilità di uno spazio pubblico e il privato/domestico che assicura una protezione paradossale, ma al tempo stesso mantiene un confine tra la sex worker e il cliente/paziente. 

L’ingresso nel matrimonio dissolve questa negoziazione. Il sesso non è più un contratto delimitato, ma una performance istituzionalizzata che può portare alla riproduzione sessuale, alla dipendenza materiale, all’accesso a un benessere economico condizionato. La casa di lusso del matrimonio è il primo contesto dove vediamo Ani subire aggressioni e disegnare in sequenza col corpo un manuale di autodifesa, fino all’urlo “rape!”. Il matrimonio si struttura come un dispositivo di regolazione del corpo femminile in funzione della riproduzione sociale, imponendo una perdita di controllo sulla sessualità in cambio della protezione economica.

Nel film, questa transizione è visualizzata attraverso un montaggio che enfatizza l’estetizzazione del matrimonio come favola capitalista. L’ambientazione di Las Vegas, con il suo eccesso di luci e lusso, richiama la promessa di una felicità economica accessibile attraverso l’istituzione matrimoniale. Tuttavia, questa promessa è presto decostruita.

Il matrimonio non è dunque un semplice cambiamento di status, ma un meccanismo che istituzionalizza la relazione di genere attraverso un’illusione: la promessa di protezione materiale e affettiva. Il desiderio di Aleks si sposta, dalla richiesta sessuale immediata e regolata economicamente, alla volontà di inglobare Ani nella propria vita, nella propria villa di lusso, nella propria sfera di controllo. Quella che era un’interazione negoziata diventa un’appropriazione. 

Il legame tra il matrimonio e il privilegio abitativo nella società patriarcale ha una lunga storia, ancora presente. È una dinamica di sopravvivenza.

Uno degli elementi del campo d’azione di Ani è la negoziazione con Aleks, un maschile inetto, impotente, immobile, passivo. Incarna un modello di mascolinità privo di autonomia, ancora strettamente dipendente dalla madre, figura di controllo che funziona da mediatore tra il figlio e le istituzioni della classe di appartenenza.

Il corpo della protagonista attraversa lo spazio in una costante negoziazione tra movimento e relazione. Le scene che si susseguono nella parte dell’inseguimento di Aleks sono emblematiche di una dinamica più ampia: Ani non solo reagisce agli eventi, ma è nel campo dell’azione, traccia una politica della relazione attraverso il suo agire e il suo interrogare. Il suo movimento non è casuale, ma costruisce una geografia dell’attraversamento che è al tempo stesso spaziale ed emotiva. Nel suo inseguire Aleks, Ani non si limita a riportarlo indietro fisicamente, ma cerca di smuoverlo da uno stato di passività e inconsapevolezza, ponendogli domande e sollecitandolo a una presa di coscienza sulla propria esistenza e sulle sue scelte. Questa dinamica richiama un tema centrale nelle narrazioni sulle relazioni etero-cis: il carico emotivo della gestione delle emozioni, del loro riconoscimento e della loro elaborazione. L’asimmetria è evidente tra la passività di Aleks e la ricerca di una posizione nel mondo di Ani. Un aspetto ancora più esplicito di questa asimmetria emerge nel modo in cui Ani assume un ruolo di insegnamento sessuale ed emotivo nei confronti di Aleks. Questa dinamica riproduce una struttura patriarcale radicata: mentre la sessualità maschile etero cis è socialmente considerata “naturale” e “istintiva”, la sua elaborazione emotiva e relazionale viene spesso demandata alle donne nelle relazioni monogamiche, che assumono il ruolo di mediatrici tra il desiderio maschile e la sua realizzazione. Ani non solo insegna ad Aleks come avere un rapporto sessuale, ma si occupa anche della sua dimensione emotiva, della sua costruzione affettiva. Se Aleks agisce la dipendenza da strutture patriarcali (la famiglia, il denaro, il potere materno che incarna il controllo sulla sua esistenza), Ani è la figura che attraversa e interroga il mondo. 

Il dispositivo di potere del matrimonio non è solo una contrattazione tra due individui, ma un processo di iniziazione classista, di ingresso in un sistema di norme e privilegi che garantisce la preservazione della ricchezza e del potere. La madre è la vera autorità, colei che decide i destini, che mantiene Aleks in una condizione di subordinazione psicologica, che definisce le possibilità. Questa triangolazione richiama modelli classici di subordinazione della donna all’interno della famiglia patriarcale. D’altra parte, la misoginia si alimenta della dicotomia madre/prostituta.

Perché fare film sulle sex worker? Chi ha paura delle sex worker? Chi ha paura del genere? 

Nel 1986, la regista Lizzie Borden porta sugli schermi Le Professioniste del Peccato (Working Girls), un film che sovverte la rappresentazione del sex work nel cinema mainstream. Borden sceglie un approccio radicalmente diverso: il sex work viene mostrato come un lavoro, con la sua routine, i suoi ritmi e le sue dinamiche di potere. La protagonista, Molly, lavora part-time in una casa di Manhattan, accogliendo i clienti/pazienti e gestendo il proprio tempo con i lunghi turni, i capi pesanti, il controllo del tempo, la fatica fisica, emotiva e mentale. 

Le sex worker sono in maggioranza donne cis e trans, e la loro rappresentazione cinematografica è spesso legata a spazi di resistenza e subcultura, come la tradizione della ballroom e del voguing. Film come Kokomo City (2023), Paris Is Burning (1990), Pose (2018-2021) e Kiki (2016) non solo raccontano il sex work, ma lo inseriscono in un contesto più ampio di performance del genere, di costruzione dell’identità e di sopravvivenza nello spazio urbano.

La loro presenza stimola una riflessione non solo su una particolare estensione della sessualità fuori dagli spazi privati, ma anche sull’esplicitazione dei rapporti di potere, nonché sul concetto di pudore/decoro e la sua materializzazione sui “corpi scomodi”. 

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