di Fabrizio Funtò/ Chiamato ad inaugurare la rassegna “Asiatica” apertasi ieri a Roma, al cinema 4 Fontane, il film The Home.
Del regista azero-iraniano Asghar Yousefinejad è un piccolo capolavoro sulle cosiddette “fake news” ambientato in Iran. Ma recitato in turco da attori turchi.
La storia accade fra quattro mura domestiche ― la casa del titolo, appunto ― che non vengono mai superate dalla macchina da presa, come nell’”Angelo sterminatore“ di Luis Buñuel.
La situazione di base è vagamente comica e vagamente macabra, e nasconde un piccolo grande segreto: un anziano è deceduto, dopo anni di demenza Parkinson. Il suo cadavere è infilato nel cofano posteriore dell’auto del nipote, e sta per essere trasportato in tutta fretta all’università per diventare terreno di esercitazioni per medici in erba. Un “corpo” da usare per fini scientifici.
In quel preciso momento torna dall’estero la sua unica figlia Sayeh (Mohadesh Heyrat), che manca da casa (sempre la medesima del titolo) da sei anni in seguito al suo matrimonio, e chiede disperatamente a tutti i presenti di poter onorare degnamente la morte del padre, secondo i riti funerari musulmani.
Lo chiede in particolare al cugino Majid (Ramin Riazi), che non solo si è preso cura dello zio demente al posto suo, ma che viene anche ritenuto responsabile da Sayeh del buon esito dei funerali.
La qualità del film è che catapulta istantaneamente, sin dalla prima scena, lo spettatore all’interno di un dialogo esagitato, viscerale, allucinato (in termini ottici, non solo psicologici). Girato in soggettiva strettissima, in una sorta di realtà virtuale continua che obbliga chi vede il film a far parte della torma urlante ed in delirio, il film sostanzialmente racconta le fandonie, le false motivazioni, le bubbole di carattere umano, religioso, etico e morale che servono a contraffare la realtà.
Che è sempre ben diversa, molto diversa da quel che si crede o si racconta. Manipolata. Imbrogliata. Mistificata.
Proprio come accade per il gigantesco chiacchiericcio supponente che affolla gli sterminate praterie anonime dei social network. Ognuno parla di sé, parla con la sua lingua, esprime i suoi pensieri in una trama di contraddizioni e reciproci fraintendimenti, che non porta nulla.
Direi che non porta quasi mai all’accertamento della verità, come ha dichiarato espressamente il regista in una recente conferenza stampa sul film:
“Alla fine, la missione del regista è proprio quella di trasmettere come la lingua e la cultura possono essere manipolate per i propri scopi. Il film è fondamentalmente sulla verità contro la realtà”, ha detto Yousefinejad. “Sayeh piange per suo padre, ma alla fine si impara che i motivi delle sue lacrime non sono ciò che inizialmente sembrano. Le emozioni sono reali, ma l’interpretazione di questi sentimenti da parte dello spettatore risulta alla fine ingannevole “.
Un buon rimedio contro il sistema di manipolazione del consenso che usa tutto, soprattutto i sentimenti elementari degli esseri umani, per manipolarli.
Saggiamente il regista nasconde la realtà: il corpo del reato non appare mai. Ma tutti gli parlano addosso. E nessuno che si fermi un attimo a pensare, a riflettere, a capire.
Piccolo “speculum aevi” dei giorni nostri, che ci proviene dal vicino est.
Un grazie ad “Asiatica” che porta a Roma, per il diciottesimo anno consecutivo, pensieri e visioni diverse, ma non aliene dai nostri problemi occidentali.
Tutt’altro!