Piove sempre o quasi durante Artecinema, annuale rassegna di film sull’arte contemporanea che, collocata a metà ottobre, segna ormai da alcuni anni l’inizio della brutta stagione (meteorologica, s’intende) nel calendario degli eventi napoletani. Sarà per questo, si scherza nel foyer, che la grande sala del cinema-teatro Augusteo viene regolarmente riempita praticamente durante tutti e quattro i giorni di proiezioni: sorpresa dalle prime piogge, la gente finisce per cercare riparo nella “strategica” struttura che sorge lungo la centralissima Via Roma e si fermar a vedere qualcuno dei video proposti dal programma. Ma ovviamente c’è molto più di questo.
In realtà, il festival, che sotto la direzione di Laura Trisorio ha raggiunto, con questa, la quindicesima edizione, si è ormai consolidato come un punto di riferimento nel panorama (peraltro non propriamente vitalissimo) video-cinematografico cittadino. Negli anni, Artecinema è riuscito a ritagliarsi un proprio spazio peculiare, strappando il documentario d’arte alla nicchia in cui è tradizionalmente relegato – genere storicamente ostico anche ai cinefili più intrepidi – e consegnandolo per qualche giorno all’attenzione di una platea sorprendentemente ampia. Negli ultimi ann le presenze complessive si sono attestate attorno alle 6000 unità. L’esperienza di questo progetto dimostra che un paziente percorso di fidelizzazione del pubblico che passa, inevitabilmente, per un apprendistato fatto di sale semivuote e, di riflesso, voglia di mollare la presa in chi sta dall’altra parte, può infine rivelarsi fruttuoso. Nell’ardua battaglia per la visibilità, il divano del salotto piazzato davanti al televisore (ci si passi l’immagine abusata) rimane un avversario improbo per una proposta culturale “altra”; tuttavia il pubblico si coltiva, gli occhi si possono nutrire, gli spettatori vanno allevati. Purché ci si smarchi dall’assillo di un riscontro quantitativo immediato.
24 i lavori visti in totale nell’edizione appena conclusa (14-17 ottobre), suddivisi in 3 sezioni, tutte rigorosamente non-competitive: Architettura, Arte & dintorni, Fotografia. Impossibile occuparsi singolarmente di tutti. Non si proverà qui a restituirne una panoramica che sarebbe necessariamente incompleta e scarsamente sistematica, ma ci si soffermerà su alcuni dei titoli apparsi maggiormente meritevoli di nota.
Sorprendente il breve (20’) Flooded McDonald’s, l’unico tra quelli qui trattati a non essere un filmato sull’arte, ma un filmato d’arte di per sé. Realizzato dal gruppo danese Superflex, vi assistiamo al progressivo allagarsi dell’interno di un McDonald’s riprodotto in studio a grandezza naturale. Tavolini e sedie, vassoi, confezioni di patatine, bevande e statue di clown, tutti marchiati con la famigerata M, cominciano a galleggiare finché lo spazio non viene completamente sommerso dall’acqua. L’evidente intento politico dell’azione artistica dei Superflex si coniuga qui con una visionarietà notevole, che non si limita al momento “sovversivo” dell’allagamento. Prima, infatti, nella parte iniziale, la videocamera filma lungamente l’interno spoglio del locale, giocando coi suoni propri di un ambiente in stand-by al termine di una giornata di lavoro (il classico ronzio del frigorifero, per intenderci) e generando nello spettatore un disagio autentico nei confronti di un luogo che viene solitamente “venduto” al pubblico come il non plus ultra del friendly. A guardare quelle immagini viene da chiedersi com’è che a nessun regista horror contemporaneo sia ancora venuto in mente di ambientare un film all’interno di uno spazio così potenzialmente inquietante!
Il “Cinema” con la c maiuscola ha avuto spazio sugli schermi di Artecinema attraverso il documentario Picasso and Braque Go to the Movies, che mostra gli effetti e l’influenza della rivoluzione tecnologica del primo Novecento, e in particolare del cinema, sui due maestri cubisti. Prodotto e narrato da Martin Scorsese, il film ospita interviste a studiosi d’arte e artisti, tra cui Chuck Close, Julian Schnabel e Eric Fischl, ed esamina l’incontro tra film e pittura all’inizio del XX secolo. Diretto da Arne Glimcher, in passato anche regista cinematografico (La giusta causa), il film gioca con le immagini dei quadri di Picasso e Braque e con sequenze del cinema delle origini (Lumière e Méliès, ma anche Pathé, Williamson, etc.), trovando tra quelle e queste elementi di continuità spesso imprevedibili.
Tra i lavori dedicati a singoli artisti, va senza dubbio segnalato Martin Parr. The Magic Moment, sul noto fotografo inglese. Il tratto distintivo che accomuna gli scatti di Parr è un’attenta riflessione sul consumismo, inteso non solo come stile di vita, ma come ideologia paradossale della società contemporanea. Sin dagli esordi Parr si è mostrato interessato ai comportamenti sociali, al modo in cui le persone arredano le proprie case, ai cibi che scelgono di mangiare, agli abiti che indossano, alle mete turistiche che prediligono, e ha cominciato a fotografare queste abitudini ordinarie con uno sguardo acuto e un’ironia tipicamente british. A ciò aggiunge una cura e un amore sconfinati per il dettaglio dissonante, che percepisce, all’interno delle proprie foto, come l’elemento di realtà, e quindi di dinamismo, che arriva a intaccare la perfezione statica e artificiosa della messinscena del reale.
Va certamente citata, infine, la serie di disegni animati umoristici How to Kill the Artists. La giovane Laurina Paperina dissacra la visione stereotipata del Grande Artista, mettendo in scena le morti violente di alcuni grandi dell’arte, che avvengono sempre a causa o per mezzo delle loro stesse opere. Attraverso disegni minimali, dal tratto volutamente rozzo, che evocano manifestamente l’universo estetico e poetico di South Park, l’autrice trentina stimola una riflessione sulla forza dell’opera d’arte che incombe a tal punto sul suo creatore da farlo soccombere. Tra le sue vittime: Pietro Manzoni, Gilbert and George, Francis Bacon, Francisco Goya e Vincent Van Gogh, che muore ovviamente dissanguato dopo essersi tagliato un orecchio…