Avvertenza: mi avvio a scrivere una recensione modaiola e fancazzesca almeno quanto il film di cui si occupa, nella quale potrei utilizzare senza imbarazzo anglicismi e gergalità adolescenziale. Assumendomene ogni responsabilità, ne sconsiglio la lettura a tutti coloro per i quali “le parole sono importanti” ad ogni costo e a prescindere dall’oggetto della riflessione.
Freaks di tutto il mondo unitevi!
Araki, alle prese con il sotto-filone tipicamente indie della "stoner commedy" – la prima mai presentata a una Quinzaine des Realizateurs, osserva con un certo orgoglio il regista – non brilla né per invenzione visiva, né come testimonial di seppur modeste istanze libertarie. L’emoticon dalla faccetta sorridente, la smiley face del titolo, qui nella variante fumatrice di cannabis, che campeggia nella locandina e si esibisce compiaciuta nel bel cartoon in testa al film, è simbolo stantio e malinconico degli sballi più che altro chimici di una rave generation in fase calante già da più di una decade, normalizzata e catodizzata dal grande circo di mtv&partner. I 24-hour-party-people sono cresciuti dagli es(x)tatici anni ’90, ormai sono integrati professionisti in carriera, pusher o tossici a tempo pieno, conservano strisce di “cocco” per le grandi occasioni e magari si professano pure proibizionisti. Quando la trasgressione, di forma e di contenuti, diventa maniera e facciata decò, come siamo stati ormai abituati dalla filmografia dell’eterno teen Araki con la sola notevole eccezione di Misterious Skin, può accadere che il cinema e l’arte in generale diventino veicolo di un moralismo strisciante, più deleterio delle ipocrisie etiche neoteocon, in quanto standardizzante.
Ma restiamo ai fatti, nel duplice significato di eventi scatenanti e di personalità in trip da sostanze illecite: la smiley girl protagonista della vicenda è Jane F. (è lecito supporre una discendenza dall’illustre antenata europea Christiane F.?) interpretata da Anna Faris, già icona collegiale bionda e urlatrice perfetta degli Scary Movies. Di Jane sappiamo subito che: aspira a diventare un’attrice, divide l’appartamento con un nerd cinefilo e feticista dei teschi, trascorre gran parte della sua giornata strafatta di playstation e naturalmente di cannabinoidi. Grosso modo una tipica giovane abitante di Los Angeles. Anna-Jane è decisamente nel ruolo, dando corpo (e volto) a tutto il repertorio delle smiley-faces-espressioni in un morphing ininterrotto, dalla catatonia letargica alla frenesia motoria attraverso i differenti stadi della sua coscienza alterata per definizione. Araki, da buon entomologo di adolescenze malate, l’accosta con il grandangolo per studiarne la virulenza di grottesco.
La commedia prende l’avvio nella forma classica dell’equivoco: Jane trova nel frigo un vassoio di dolcetti che il suo coinquilino ha amorevolmente preparato per un festival di b-movies, e pensa bene di divorarseli in un impeto bulimico, ignara della natura del loro ingrediente principale, la stessa sostanza che circola già abbondantemente nel suo corpo, solo in concentrazione decisamente più elevata. Nel tentativo di venire a patti con ciò che rimane della sua coscienza sempre più in preda a mostruosi sensi di colpa e a presagi apocalittici di castighi e rappresaglie (dell’inquilino maniaco, del suo pusher, della polizia), la distonica Jane è costretta a trasformarsi nella versione poco atletica di Lola corre dal fiato corto e dall’equilibrio precario. Il film vira a slapstick, appena aggiornato da un linguaggio furbetto e ammiccante alla cultura pulp, e Jane diventa clown, equilibrista e domatrice del suo personale circo allucinogeno.
Fin qui tutto bene, ci verrebbe da dire: le trovate si susseguono con una certa scioltezza, i personaggi dimostrano di aver studiato la parte sui manuali del Sundance Festival, l’operazione stilistica oscillante tra videoclip anfetaminico e fumetto underground convince pur senza brillare in originalità.
Parente stretto del cult del cinema stupefacente Spun di Jonas Akerlund, Smiley Face sembrerebbe così destinato a ritagliarsi il suo posto in videoteca tra altre innocue commedie di outsiders, meno epico-politica di Trainspotting, senza le pretese esistenziali e le preziosità letterarie di A Scanner Darkly, lontana dai vertici lisergici di Paura e delirio a Las Vegas. Ma Araki tenta con mal celata immodestia di spingersi nel campo dell’autorialità. Ammiccando ai cinephiles sinistrosi della Croisette si appella niente di meno che al Manifesto del Partito Comunista di cui Jane si farà improbabile attivista divulgatrice; e non è un caso se sarà proprio l’imprevista commistione con la lotta di classe a condannarla.
Nell’estremo tentativo di salvare ciò che ha più a cuore – il proprio letto dal pignoramento dello spacciatore – Jane vedrà infrangersi i piani d’azione via via ingegnosamente elaborati, causa la discordanza tra pensiero e gesto, tra integrità del ricordo e distorsione della realtà. E il mondo esterno non le darà una mano di sicuro, anzi l’ostacolerà in tutte le forme previste dal Codice di Deplorazione per i Freak. Los Angeles California, ex-patria di hippies, liberal, punk, hell’s angels, bande di rappers, fatti e strafatti di ogni natura e sintesi, come tutte le altre città del mondo si va trasformando in un mostruoso covo di Terminators in giacca e cravatta, di guardiani della controrivoluzione borghese e perbenista, di baccelloni ultracorpi sempre pronti ad additare e a segnalare ogni biasimabile alterità con il loro urlo disumano e prevaricatore. Araki fiuta il marcio ma non si schiera: la presa d’atto di un mondo in cui chi non si omologa è destinato ai centri di rieducazione, non diventa mai condanna esplicita, rimane galleggiante e ambiguamente compiaciuta, autorizza la terrificante ipotesi che lo stesso regista sia ormai schierato dalla loro parte, quella dei baccelloni.
sì, alla fine ben poco rocambolesco. Termina il viaggio, la faccia ghignante, tale e quale all’inizio.
E poi, sul “capitale” volante che ci piove sopra le teste: il suo disfacimento piuttosto che la sua rinnovata presenza..?
non c’è secondo te un giudizio implicito sull’uso delle droghe?
1. Sono d’accordo. Le pagine smembrate del manifesto dei comunisti si disperdono in un vento che non fischia più, ormai inservibili come in una campagna di vendite promozionali fuori stagione, senza che nessuno paia accorgersene, concentrato com’è sul sopravvivere a sé stesso e alla propria miseria interiore.
2. Sì, il giudizio reazionario sull’uso di sostanze mi pare che ci sia e neanche così implicito, ma appena stemperato dall’involontarietà dell’originario atto in(di)gestivo. Forse Araki è sostenitore della “modica quantità“.