Ricordo di avere visto, la sera precedente la proclamazione del Palmarés Apitchatpong Weerasethakul seduto con la sua attrice nel lobby del Palais Stéphanie, in disparte, lontano dai riflettori e dall’interesse dei media, quasi smarrito al margine di quell’enorme fiera delle vanità che è il festival di Cannes. Per un momento ho pensato di avvicinarmi per dirgli quanto ammiro il suo lavoro, per pudore ovviamente non l’ho fatto. Poi è successo il miracolo: un premio coraggioso, visionario, storico. La Palma d’Oro per Lo zio Boonmee che si ricorda delle sue vite precedenti ha consacrato ufficialmente uno dei più grandi registi del nostro secolo. Ora la Viennale (Vienna international filmfestival), consapevole del suo talento gli aveva già affidato, molto prima della premiazione a Cannes, il compito di creare il trailer per l’edizione 2010 inauguratasi il 21 di ottobre. Nume tutelare della manifestazione con il cortometraggio Empire, Apitchatpong Weerasethakul sarà presente in questi giorni al festival austriaco alle proiezioni di Lo zio Boonme che si ricorda delle sue vite precedenti. Sarà un’occasione propizia per riflettere sull’universo creativo dell’artista tailandese.

Lo zio Boonmee che si ricorda delle sue vite precedenti è il quinto lungometraggio di Apitchatpong Weerasethakul. Rivelato al pubblico occidentale dal FID Marseille nel 2001 con Misterious object at noon, il regista tailandese ha continuato ad offrirci nel corso di questi ultimi dieci anni una serie di opere uniche nel loro genere. A partire dal 2002 realizza una trilogia su soggetti che gli stanno particolarmente a cuore: Blissfuly Yours riflette la sua passione per il cinema, Tropical Malady (2004), tratta della sessualità e dei suoi demoni, Syndromes and a Century (2006) è un omaggio alla memoria dei suoi genitori, entrambi medici.

E’ difficile parlare di Lo zio Boonmee che si ricorda delle sue vite precedenti senza fare riferimento alle opere precedenti del regista: il legame fra un film e l’altro è nel caso di Apitchatpong Weerasethakul profondo ed organico. Delle possenti radici sotterranee, legano e collegano vicende, visioni, sensazioni formando un unico insieme vitale. All’origine dei suoi film c’è un atto creativo assoluto che sembra andare ben oltre le frontiere dell’arte cinematografica, ma che non potrebbe esistere né avere la stessa importanza al di fuori di questo mezzo d’espressione, perché, fra le altre cose, il suo fare cinema è anche una riflessione sul cinema stesso. Radicale, inclassificabile l’opera di Apichatpong Weerasethakul genera in chi la osserva sorpresa e meraviglia. La realtà banale e quotidiana si popola di esseri ibridi, di spiriti e di anime erranti, di animali dai tratti umani; il suo sostrato mitico si manifesta quasi impercettibilmente e si impone in modo tutto naturale. La lentezza del ritmo e lo stile contemplativo contribuiscono a creare una tensione magnetica che soggioga la nostra attenzione, come in un incantesimo. Più che raccontarci delle storie, Apichatpong Weerasethakul inventa e crea un suo universo personale dove la natura, splendida e rigogliosa, respira il mistero e il fascino insidioso del soprannaturale.

Nei suoi film non si può parlare di una sceneggiatura nel senso classico del termine: il regista afferma di essersi spesso ispirato al modello surrealista del “cadavere eccellente”. Pur senza rinunciare ad ogni traccia di trama, la linea narrativa si smarrisce in una serie di meandri insondabili, di situazioni inquietantemente speculari, di rifrazioni inusitate, di flash back erratici, suscitando il nostro stupore ad ogni passo. Le immagini ed i suoni che costituiscono questo plot volatile ed aleatorio, si allineano sul filo di associazioni mentali, visioni, memorie, pulsioni e desideri atavici.Tropical malad y (2004) teatro di un amore primordiale, viscerale e sovrumano, è esemplare in questo senso. Nel film – ma questo vale anche per le altre opere – una prima parte di stampo più realista è doppiata da una seconda parte che sembra riprodurre vagamente la vicenda narrata proiettandola però in una dimensione fantastica ed onirica. Così la storia d’amore fra Keng, un soldato in licenza, ed il giovane Tong, un ragazzo di provincia, semplice e puro, prende avvio con tenerezza e poesia fra passeggiate in città, una serata al cinema, una gita in campagna, una visita ad un santuario con una vicina di casa. Dal momento però in cui il soldato riparte per raggiungere il suo reparto la sua missione diventa un viaggio angosciante e fatale nell’immaginario. Keng si trova immerso nell’universo incantato ed arcaico della giungla e parte solo alla caccia di una tigre spettrale – a volte animale selvaggio, a volte corpo umano – riverbero ed incarnazione dell’uomo amato. Man mano che si addentra nella foresta sulle orme della bestia Keng perde progressivamente ogni punto di riferimento e si trasforma da cacciatore in preda. Nei sentieri notturni della giungla l’apparizione splendida di un albero che si illumina improvvisamente diventa tutt’uno con le tracce fuggenti della tigre, col suono inquietante e portentoso della natura trascinando l’eroe in un’allucinazione febbrile ed estatica. Una melanconia dolce e profonda, un dolore quasi fisico ed una commozione intensa ci pervade guardando questa seconda parte del film: la passione amorosa assoluta sbocca in un annientamento, una perdita di sé che è comunione mistica e viscerale con la natura.

Apitchatpong Weerasethakul mischia il presente e la rappresentazione della realtà ad un’anteriorità immemore, al passato remoto di vite antecedenti, di anime reincarnate, di ricordi sepolti. Un sostrato mitico invisibile, ma onnipresente si affaccia sulla scena del quotidiano per aprire un varco verso l’al di là. La concezione animistica del mondo che permea la sua opera va di pari passo con una riflessione sulla memoria personale, ma anche storica del suo paese; massacri rimossi, crimini taciuti ed offuscati dalla storiografia ufficiale, irrompono a tratti, con il loro riverbero oscuro, nei suoi film. Non vengono esplicitati e tematizzati apertamente, ma sono costantemente presenti a monte come un humus di cui si nutre il suo universo creativo. Artista scomodo spesso censurato nel suo paese Apitchatpong Weerasethakul ha sempre lavorato al di fuori del circuito cinematografico commerciale tailandese producendo i propri film e promuovendo il cinema sperimentale e indipendente attraverso la sua società, Kick the Machine. Lo zio Boonmee fa parte di «Primitive», un vasto progetto artistico sull’Isan, regione d’origine del regista situata al nord-est della Tailandia, focolaio delle insurrezioni che dilaniano il paese. Lo zio Boonmee che si ricorda delle sue vite precedenti inizia in una maniera tanto immediata quanto misteriosa e significativa: per una strada di campagna passa un camion poi una mucca attraversa lo spazio scenico. L’impronta del regista è qui immediatamente riconoscibile; più che un tratto di realismo la presenza dell’animale è il simbolo di una reincarnazione. Il film segue il trapasso di un uomo gravemente malato, Boonmee, dalla vita alla morte. L’amatissima moglie mancata vent’anni prima, il figlio misteriosamente scomparso e trasformatosi in un uomo-scimmia affiorano, con la più grande naturalezza, sulla soglia del reale per accompagnarlo con dolcezza nel suo ultimo
grande viaggio. Lo zio Boonmee si ispira liberamente al libro di memorie di un monaco buddista che dice di ricordarsi delle sue vite anteriori; per la prima volta il regista si serve dei ricordi di un’altra persona come spunto per costruire un film. Rispetto alla struttura binaria che aveva caratterizzato i suoi lavori precedenti Lo zio Boonmee presenta una linea di sviluppo differente, più complessa e stratificata. Il viaggio dell’anima attraverso una serie di vite anteriori offre al regista l’opportunità per rendere omaggio alle reminiscenze cinematografiche e televisive della sua infanzia, mettendo a punto un ventaglio di stili diversi. Cambi di tono, rotture improvvise nella narrazione, inserti apparentemente incongrui, episodi isolati compongono un’opera di una bellezza inconsueta.

«Ho cercato di trovare una struttura secondo le bobine – ha spiegato il regista nel corso di un’intervista ai Cahiers du Cinéma – ogni bobina ha uno stile diverso. Il film si compone di sei bobine di 20 minuti. (…) Avevo voglia di mischiare stili e temporalità differenti; questo é il mio contributo personale in questa storia che non sono stato io ad inventare. (…) Volevo che il film fosse anche una riflessione sul cinema stesso, visto che la pellicola sta pian piano scomparendo (…)».

Nel film il triviale e il meraviglioso, il moderno e l’arcaico si sovrappongono e si compenetrano senza soluzione di continuità. Un mero riassunto della trama, non può, in alcun caso, rendere giustizia alla ricchezza, alla grazia poetica e al fascino delle immagini che vediamo sullo schermo. Una cena, girata in un lunghissimo piano sequenza, dove gli attori giocano i loro ruoli in maniera quasi meccanica e slegata diventa il teatro di due meravigliose apparizioni: la moglie defunta di Boonmee, fantasma diafano, si staglia in trasparenza sullo sfondo della notte, mentre il figlio scomparso si materializza nel corpo possente di una scimmia dagli occhi rossi ed incandescenti. In un altro episodio siamo trasportati nel mondo mitico di una principessa splendida nelle sue vesti multicolori ornate d’oro. Pochi piani bastano per commuoverci sulla sorte dell’infelice donna dal volto sfigurato e sedurci, in una sequenza splendidamente onirica, che illustra il suo incontro amoroso con una divinità – pesce fra le acque di un lago. Seguiamo poi i passi di Boonmee in una caverna sacra, dove la luce filtra come da un firmamento divino, all’incontro del suo destino finale. Infine partecipiamo alla cerimonia funebre, sobria e disincantata, di un uomo, Boonmee forse, in un luogo “altro” dove ritroviamo i protagonisti della vicenda che affermano di non averlo conosciuto personalmente. La realtà mostrataci sembra essere soggetta ad una sfasatura spazio-temporale e succedere in un mondo parallelo. Le ultime scene, semplici e prosaiche, si svolgono in una stanza d’hotel, dove un giovane monaco buddista è pronto a liberarsi delle sue vesti per godere di piaceri ben più terrestri come un buon pranzo e una serata di karaoké. Lo zio Boonmee, film spirituale, pieno d’incanto e di sottile ironia, si conclude con un epilogo enigmatico lasciando a lungo un’aura di bellezza nei nostri sguardi.

One Reply to “Apitchatpong Weerasethakul, l’enigma del meraviglioso”

  1. Ho visto due giorni fa il film alla Viennale e oggi sono capitata sull’articolo. Quanto ho letto mi ha aiutato a capire meglio cose che avevo intuito e sentito.
    Complimenti!

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