Si può immaginare il cinema di Antonio Capuano come un campo di forze in cui la «naturale» tensione alla narrazione lineare è costantemente messa alla prova da forze destabilizzanti, che scuotono il racconto dall’interno, lo distraggono e moltiplicano i punti di focalizzazione. A volte la fabula la spunta, riaffermando l’ordine nel caos, altre volte si arrende alla frammentazione. Se questa rappresentazione è corretta, Vito e gli altri, film d’esordio datato 1991, rappresenta nella filmografia del cineasta napoletano il trionfo massimo del disordine: per il modo in cui la precoce carriera criminale del dodicenne protagonista e del gruppetto di suoi coetanei (che costituisce di fatto il soggetto del film) si sottrae all’affabulazione classica e si offre allo spettatore in una successione di scene prive di un legame narrativo immediato, quasi un mosaico irrazionale di volti e situazioni che si racconta principalmente per immagini.
Eppure la matrice di Vito e gli altri «sarebbe» a tutti gli effetti una matrice neorealistica. Sia perché lui, Capuano, approdato alla regia tardi interrompendo un’avviata carriera di scenografo, ama De Sica e Rossellini, pensa al set come a un naturale prolungamento della strada, lì dove identifica i luoghi e i corpi con/di cui fare cinema. Sia perché è dalla realtà che provengono il personaggio di Vito e la sua vicenda, dalla cronaca di una città che quanto a storture non conosce vincoli di età: è esistito a Napoli, attorno alla metà degli anni ’80, un ragazzino, di certo con un altro nome, finito in carcere per omicidio all’età di dodici anni. Ma per dirla con le parole di Capuano stesso, se «i frammenti sono realistici, il corpo non lo è». Il corpo è quello di un cinema che (non) finge, che si dichiara messa in scena sin dal principio, sin dai quei siparietti brechtiani in cui i protagonisti, seduti su sedie di legno piazzate in mezzo alla strada, si succedono davanti alla macchina da presa a enunciare sei «cose», sei terribili regole di vita: prima cosa: chi tiene i soldi deve morire; seconda cosa: la camorra se non la fai tu, la fanno gli altri. Un espediente che frantuma sistematicamente l’impressione di realtà, impegnando lo spettatore in un movimento continuo fuori/dentro il film, che rende attiva la fruizione invece di anestetizzarla.
A tenere insieme il denso e apparentemente incoerente materiale messo in campo non è, come si diceva, un collante propriamente logico-narrativo, quanto la rappresentazione di una condizione esistenziale ineluttabilmente segnata dalla violenza (sesta cosa: quando hai fatto un patto, l’hai fatto e basta; se campi campi, se muori a te che te ne fotte?). Vito e i suoi amici, in ossequio alle loro regole, scippano, spacciano, si prostituiscono, si drogano, vanno in prigione, compiono e subiscono stupri, infine uccidono. Senza scampo né redenzione. Napoli, forse mai vista prima così respingente e abbrutita, è l’ideale parco giochi di una preadolescenza deviata che annichilisce per la sua evidenza. La scuola è lontanissima e incomprensibile. La voce più autorevole proviene dai televisori sempre accesi dentro le case e i «bassi» (terza cosa: la televisione è più importante della mamma) vomitanti il flusso costante delle immagini che in quegli anni stavano ri-fondando il nostro immaginario: Beautiful, Sulle strade della California, Rambo, i primi scampoli di tv-verità, la messe di spot imposta dalle reti commerciali.
Siamo nel 1991 e Vito e gli altri segna di fatto l’inizio del «nuovo cinema napoletano» che di lì a poco si sarebbe imposto all’interesse nazionale (Morte di un matematico napoletano di Mario Martone è del 1992) come un cinema attento al sociale quanto libero dai vecchi consunti schemi dell’«impegno». Pienamente dentro questa linea, Capuano evita le pastoie del film di denuncia affermando uno sguardo sulla realtà di profonda umanità e partecipazione. Laddove potrebbe affiorare il pietismo, nella rappresentazione dei ragazzini quali vittime di una società cieca e ingiusta, a imporsi è invece proprio il loro punto di vista. Vito e gli altri, tutti ragazzini presi dalla strada e che in molti casi alla strada sono tornati, non sono trattati come i destinatari di un teorema creato altrove, ma visti come soggettività autonome. Non categorie sociologiche, ma entità desideranti. Fin nelle espressioni più sgradevoli e sconcertanti. Quinta cosa: a me mi piace la vita che faccio e se non mi divertivo neanche un poco non la facevo.