Ogni volta che si va a vedere un nuovo film di Mike Leigh si ha l’impressione che non si sia mai finito di vedere il film precedente ed è per questo che anche quando si scrive sul cinema di questo appartato, schivo autore britannico ci si ricollega direttamente al filo del pensiero interrotto, ma rimasto sopito nel bagaglio della memoria, pronto a riattivarsi con le nuove riflessioni ed impressioni che susciterà il film successivo. Another Year è un altro anno, un altro momento, un’altra pagina sulla quale Leigh ha impressionato i ritratti di un’umanità che conosce bene – la medio/alta borghesia londinese – e che fa esprimere autonomamente attraverso la forza della parola, accogliendola dentro uno sguardo non giudicante, in alcuni casi pieno di amore e compassione, in altri semplice indagatore di storie piccole e anonime eppure proprio per questo universali e assolute.
Il rapporto con il cinema di Mike Leigh mi ricorda la sequenza iniziale di un film che non sarebbe sfigurato tra i titoli della sua filmografia: quel Domenica, maledetta domenica che si apriva con l’immagine dei fili delle linee telefoniche e con il rumore sordo di una serie di tentate connessioni, allegoria delle relazioni tra gli esseri umani che provano a connettersi tra di loro per uscire dalla condizione isolata di freddezza metallica ed entrare in una comunicazione affettiva. Ne era regista John Schlesinger che con Leigh condivideva la peculiare inglesità e che nel film raccontava il menage di tre solitudini: un giovane irrequieto scultore bisessuale e i suoi due amanti, un medico di mezza età e una trentenne divorziata, entrambi insodisfatti ma altruisti, disillusi e allo stesso tempo romantici. Anche Domenica maledetta domenica aveva quella speciale qualità per cui i personaggi venivano percipiti familiari, come se li avessimo già conosciuti e a un certo punto persi di vista, poi nuovamente ritrovati, un tentativo di connessione telefonica andato a buon fine sino al termine della prossima conversazione.
Così l’”Altro anno” diventa speculare a ciò che è venuto prima e a quello che verrà dopo, in questo cinema del momento, del qui ed ora, dove si chiede allo spettatore sia di ascoltare che di guardare la vita farsi e disfarsi sotto i suoi occhi e in cui la regia assume il valore di un invinto ad accogliere e a ricevere la più vasta gamma di emozioni e sensazioni. Dice tutto in apertura, anche senza parole, l’espressione ingrugnita e depressa di Imelda Staunton, che aveva già prestato il sorriso aperto e vitale e poi la dolorosa consapevolezza finale a Vera Drake, e che qui fa una paziente particolarmente ostica e scettica della psicologa Ruth Sheen, altro volto degli ideali traditi dei personaggi leighiani(da Belle speranze a Tutto o niente). E il racconto si sposta proprio sulla Sheen, sul suo corpo da accogliente e morbida matrona della più classica delle case inglese della middle-class, quelle villette a schiera con giardino dove transiteranno altri volti ed altri corpi, già incontrati dentro altri racconti e ognuno desideroso di portare il suo pezzeto di vita per costruire la mappa di un’umanità riconoscibile e unica. In questo caso la Sheen abbandona i personaggi delusi e sopravissuti alla terrificante epoca thacheriana o meglio ne incarna un’altra faccia, quella che ha mantenuto il suo lato ottimista e generoso e ha trovato un equilibrio e una serenità nella normalità di un matrimonio (e lui è Jim Broadbent, il volto aperto e “simpatico” del cinema di Leigh) e di una maternità che non hanno negato o represso l’emancipazione professionale ed esistenziale della donna, senza escludere il lato casalingo e la possibilità di coltivare l’orto nella casa di campagna.
Gerri, questo è il nome del personaggio, è la versione adulta della Poppy de La felictà porta fortuna e non a caso per il ruolo della futura nuora, Leigh ha voluto il volto di Karina Fernandez che di Poppy era stata la portentosa insegnate di flamenco e che qui mantiene quella recitazione clownesca e sbarazzina, in una sorta di scambio tra spiriti affini di uno stesso modo di concepire e raccontare il mondo femminile. Ma il mondo femminile di Mike Leigh, molto spesso antenna attenta a cogliere le sfumature e le impercettibile fratture di individui precari dentro la società come nella loro intimità, ha sempre avuto un controcampo ed è il volto di questo controcampo che alla fine emerge e resta nella memoria, lasciandoci l’interrogativo e la curiosità di sapere cosa sarà successo tra un altro anno ancora. Il volto in questione appartiene a Lesley Manville e ha già transitato nel cinema di Leigh, prestandosi questa volta per il personaggio di Mary, una donna della quale suggerisce da subito l’idea di una bellezza passata e ora sfiorita e l’indeterminatezza di un’età anagrafica ed esistenziale. Inizialmente sembra essere proprio Mary, la sorella maggiore della Poppy del film precedente, con un’esuberanza gestuale e fonetica che lascia al primo impatto perplessi e quasi infastiditi, come se la spontanea vitalità di Poppy fosse stata ridicolizzata e forzata in una caricatura più vecchia. Invece Mary è portatrice sulle sue fragili spalle di un peso specifico di frustrazione e dolore, anche questo riconoscibile e palpabile nel cinema di Mike Leigh.
Così dietro l’istrionismo anche recitativo della Manville si scioglie il trucco di una maschera da commedia dell’arte e ciò che resta è il volto di una piccola donna nuda e indifesa, alla quale viene regalata un’affettuosa ironia e uno spazio, tanto nel racconto quanto nell’inquadratura, che la libera dal patetico destino di seduttrice matura del ben più giovane figlio di Gerri e le offre un momento di reale seppur improbabile intesa attraverso l’incontro con il controcampo maschile della storia: Ronnie, il cognato di Gerri, volto impietrito nel tempo e paralizzato nelle emozioni e nella parola dalla morte improvvisa della moglie, quasi autistico di fronte alla latente violenza fisica e all’esplicita aggressività verbale del figlio (altro contro-campo dell’affettuoso e tenero figlio di Gerri) e che nonostante tutto riesce a stabilire un contatto con Mary grazie alla più tipica e universale azione compiuta dagli inglesi, fare il tè.
E questo loro Bleak Moment, per dirla alla Mike Leigh o meglio con il titolo del suo primo film, non poteva che celebrarsi nella stagione conclusiva di ogni racconto, di ogni vita, di ogni anno. L’inverno del freddo blu elettrico della fotografia di Dick Pope che richiama ancora i fili del telefono che tentano di creare una connessione del film di John Schlesinger. E alla fine le chiacchiere piene di progetti, viaggi, belle speranze della famiglia di Gerri verranno soffocate dal suono sordo dell’immagine di Mary rimasta sola al centro dell’inquadratura e nella mezza età della sua vit
a. E saltano in mente le parole che pronunciava il personaggio di un bel film proveniente da tutt’altra realtà cinematografica e culturale, About Elly dell’iraniano Asghar Farhadi, anche quello a modo suo storia del controcampo di una frustrazione: “È meglio vivere un finale amaro che un’amarezza senza fine”.
Visto così il film mi pare manicheo e abbastanza conservatore: da una parte la famiglia perfetta e dall’altra la solitudine disperata. In realtà a me(e non solo a me, ma il dibattito è aperto), dicevo, a me pare (e a questo punto mi chiedo, malgrado Leigh?) che la famiglia perfetta mano a mano diventi sempre più antipatica e meschina: quelle moine insopportabili dei due “perfetti”, e della ragazza del figlio di Gerri, che alla fine, nel momento diciamo così della “verità”, ridicolizzano ed escludono, nel profondo, la disperata Mary; ché comunque Mary è l’altro ma talmente altro da sé da escludere un vero confronto: Tom e Gerri hanno bisogno dei disperati per continuare a stare insieme. Sono quasi dei vampiri. La poesia, ma giusto un barlume, guardando il film sembra stare dalla parte dei disperati senza speranza. Ma anche laddove il mio sguardo (interpretativo) corrispondesse a quello di Leigh, la cosa ugualmente mi indisporrebbe, perchè a trovare poesia nella non speranza non ci vuole poi molto. Essere generosi (dove ciò non significa affatto entrarci in relazione, che invece è l’unica modalità che mette in discussione davvero) con chi sta molto peggio di te non è difficile, anzi spesso l’operazione puzza di moralismo e chiusa superiorità, ossia di un agire spinto dall’interesse personale, altro che generosità.
Se tutto questo, almeno un po’, nelle intenzioni di Leigh proprio non ci fosse, beh, a quel punto non esiterei a dire che il regista inglese ha costruito un bluff e nel farlo ha usato gli attori (le persone) facendo finta di amarli.
Io credo che il movimento di macchina finale, la scelta di chiudere il film su un volto piuttosto che su un altro – non sarò più preciso per rispetto a chi non ha visto il film – basti ampiamente a fugare i dubbi di Alessia e dirci dalla parte di chi sta Mike Leigh.