“Illumino di plexiglas le mie prigioni noir”. Così cantavano gli Scisma, gloriosa band del rock indie italiano tra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2000,nel loro brano più rappresentativo, Rosemary’s Plexiglas: parole che raccontavano l’ isolamento e la fragilità, in particolare di quella generazione nella passaggio dall’adolescenza ai vent’anni, durante un’epoca piena di “post” : tramontate tutte le ideologie, ballavamo già sui sulle ceneri dei rigurgiti successivi all’anestetico edonosimo degli anni 80 (parliamo del grunge di Seattle, a cui in qualche modo pose fine il suicidio di Kurt Cobain, che fece saltare letteralmente la sua testa e simbolicamente tutto il disagio e la rabbia di un mondo di ragazzini e ragazzine, in cerco di un senso e di un abbraccio)
Questa premessa aiuta ad entrare nel mood di un piccolo, fulminante corto dal titolo significativo e un po’ figlio della storia che abbiamo appena raccontato, Anime in pena, che ha la durata di un film breve(19 minuti e 50), ma il respiro e le suggestioni di un lungometraggio. Opera prima di Alessandro Corazzi, poliedrico artista-filmaker-attore-autore teatrale, nonché collaboratore fondamentale di Dario D’Ambrosi e del glorioso Teatro Patologico (una delle più importanti e longeve esperienze, in Italia e nel mondo, di teatro integrato e inclusivo per persone diversamente abili), questo film racconta l’onda lunga di quel sentimento post, un po’ da sopravvissuti, da cui siamo partiti. Girato in epoca pre pandemia, in realtà questa differenza si percepisce solo dal fatto che i personaggi non hanno le mascherine, perché per il resto il distanziamento, lo smarrimento e la solitudine di questo periodo sono assolutamente presenti, fin dalla scelta dello spazio e del tempo :un desolato giorno di Natale , in in uno spoglio luna park di una qualche periferia romana, c’è un uomo, vestito come un malconcio Santa Klause che distribuisce caramelle ai bambini, interpretato dal laconico Pietro De Silva (che in molti ricorderanno come compagno di baracca di Beningni nel campo di concentramento de La vita è bella); in un altro punto abbandonato della stessa periferia, spunta fuori da una roulotte, a dirne già la condizione di nomadismo, una ragazza con una benda sull’occhio e l’espressione perennemente contrariata(che ha il volto inedito, intenso e deciso di Flavia Rossi) .
Intorno sembra esserci il vuoto, una sorta di metafisica esistenziale in cui la condizione di quarantena ( come distanza fisico/spaziale) appare sotto la forma di una categoria dell’anima. E seguendo la lezione di un certo cinema francese d’atmosfera (proprio l’incipit di un polar,ovvero la declinazione transalpina del noir ) o del cinema italiano degli anni ’90(il Carlo Mazzacurati di Un’ altra vita e il Gian Luca Maria Tavarelli di Portami via, ad esempio) l’incontro tra questi due personaggi segnati nel corpo e nell’identità privata e sociale, viene descritto attraverso le attese, le sospensioni, i giri a vuoti: lui, Vincenzo, incassata la misera diaria settimanale da Babbo natale stagionale dal rude gestore che non esita a mortificarlo , si prepara a mettere in scena il suo festeggiamento rovesciato, tra alcol e vittimismo; lei, Marika, che fa la lap dancer e la prostituta in un triste club a luci rosse, camuffa lo stesso dolore sotto l’aggressività e il cinismo della sopravvivenza.
Entrambi sembrano provenire da altri immaginari, anche cinematografici: lui è la versione più adulta e ancora più accorata del padre separato e indebitato interpretato da Valerio Mastandrea ne Gli equilibristi di Ivano De Matteo;lei, andando più indietro nella cinefilia, un mix più quotidiano e minimalista, tra l’inquietante donna con la benda nera di Twin Peaks e Black Mamba/Daryl Hannah, assassina con un’ etica in Kill Biil; tra disperazione e aggressività, autodistruzione e orgoglio, senza la portata onirico/simbolica lynchana della prima o la carica epico/iperrealista tarantiniana della seconda.
La location del loro incontro è ,apparetemente, la squallida camera da letto del club dove lavora Marika, ma ben presto Corazzi sposta il focus sullo spazio della loro intimità, e non tanto su quella che riescono effettivamente a costruire , bensi sulla manifestazione di un tale bisogno: Vincenzo si permette di piangerle sul grembo, rievocando ua famiglia perduta a causa dell’alcolismo di cui è dipedente, Marika si da il permesso di accoglierlo , rovesciando il suo vissuto rispetto allo stereotipo maschile di violenza e sottomissione a cui è stata abituata (“Pensavo mi saresti saltato subito addosso” , gli risponde quando lui le chiede cosa avesse pensato nel momento in cui l’ha visto, aggiungendo “cerco di capire al volo chi ho davanti, ho una certa esperienza ormai” ).
Si avverte che abbiamo a che fare con personaggi potenzialmente “bigger than life” , con qualche trauma dirompente nel loro passato, tanto da non poter essere raccontato come nel caso dell’occhio sfregiato di Marika (che ne alimenta il mistero/mito). Siamo in un’ottica di cinema delll’istante , che fotografa come una polaroid la situazione per quello che è: un ‘immagine distesa nell’arco di venti minuti , quasi in tempo reale e in presa diretta( la grande madre di questa idea di cinema è l’Agnes Varda di Cleo dalle 5 alle 7).
Marika e Vincenzo si sfiorano e intuiscono qualcosa, l’una dell’altro, che non diventa comprensione ma induce ad una curiosità , uno scoperta, un sguardo da un differente punto di vista. Tutto ciò dura un attimo, ma è sufficiente per aprire e non chiudere, innescare il detonatore per far saltare degli schemi e dei clichè di vita, invece di implodere fino a scomparire, con un chiaro affetto/empatia per questi invisibili del sottosuolo urbano, e un tocco di ironia che allegerisce ed evita il facile miserabilismo.Rimane comunque la sensazione di un racconto interrotto, che non segue fino i fondo i segni disseminati nel suo dipanarsi in maniera cosi calibrata, con l’impressione, a tratti frustrante per lo spettatore, di volerne sapere di più del prima o del dopo dei due protagonisti, o anche solo di allungare quel momento e quella notte del 25 dicembre fino all’albeggiare di una nuova natività per Marika e Vincenzo ( l’appuntamento, speriamo, sia rimandato al primo lungometraggio dell’autore).
C’è da aggiungere che la sensibilità estetica di Corazzi, nell’illuminazione notturna tagliata dalle luci fredde e da tonalità di un rosso/violetto quasi psichedelico, decisamente anti naturaliste nella volontà di trasfigurare, restituisce l’impatto di questo piccolo mondo postumo , l’eco degli effetti di una qualche guerra atomica o ,restando sulla nostra eterna attualità ,di una pandemia.
Magari , quando ci toglieremo le mascherine, il mondo ci apparirà come un grottesco luna park e il primo gesto relazionale che faremo sarà quello di sfiorarci, per abbandonarci poi ad un pianto nel grembo sconosciuto e familiare dell’altro, chiedendo in cambio solo un po di silenzio, e una carezza.