La storia di Sopra le nuvole (2008) è certamente una storia di passioni. Passione per il cinema, per la storia, per un mondo, quello contadino nella fattispecie localizzato nei paesi dell’appennino emiliano negli anni della Resistenza. Un mondo arcaico sì, ma non estinto. Un luogo capace di fare un salto indietro di più di mezzo secolo e restituirci una dolorosa e nitida rappresentazione storica e umana che si anima di volti, mestieri, gesti, dialetti, pronti a svelarci che in fondo da quelle parti “I montanari di oggi non sono poi così diversi da quelli che subirono le rappresaglie”. La storia rallenta il passo dopo aver impresso il suo marchio di morte. Sono Sabrina Guigli e Riccardo Stefani a raccontarcelo, i due registi di Sopra le nuvole, autori appassionati e protagonisti di una vicenda produttiva fatta in casa. Il casting? Annunci nei paesi dei comuni montani, provini e parti assegnate. Nessun attore o attrice professionista. Contenimento dei costi. La popolazione locale risponde con entusiasmo e partecipazione, segno della voglia e della necessità di non dimenticare, di non disperdere la memoria. Un mondo da ricostruire insieme perchè quella storia insanguinata non è morta con le vittime. Del suo odore acre sono permeate le case, la terra e quei racconti di fucilazioni ed esecuzioni hanno ancora un riverbero troppo forte per potersi affievolire. Tutti collaborano alla riuscita fornendo persino l’abbigliamento del tempo. Gugli e Stefani scrivono e dirigono. Non sono cineasti professionisti, nessuna scuola di cinema alle spalle. Seguono i corsi di Giovanni Veronesi il quale darà poi sostegno produttivo al progetto.
Non un film sulla Resistenza, non un film di guerra, Sopra le nuvole si muove come il successivo L’uomo che verrà (2009) di Giorgio Diritti, scegliendo il punto di vista terzo, quello della popolazione civile locale, documentando la loro vita scandita da riti e abitudini, fatica. Una realtà sollevata dal tempo, in equilibrio straniato e sospeso, alterato poi da fattori esterni: l’arrivo dei soldati (i màscrè, i mascherati) la guerriglia partigiana e le rappresaglie naziste. I contadini proseguono la loro vita, il loro lavoro a Monchio, Cervarolo, paesi remoti. Danno ospitalità ai disertori, certo per solidarietà umana prima che ideologica. La guerra per loro è lontana e quando arriva dentro le loro case li coglie impreparati, indifesi.
Dentro il film c’è un nuovo modo di raccontare la vicenda delle stragi naziste, un modo che implica una contestualizzazione realistica, un riguardo antropologico che sottrae l’evento storico a ogni pratica di rivisitazione, per inserirlo invece dentro il tessuto etnologico e culturale descritto con esattezza. L’utilizzo di uno sguardo di indagine di tipo etnografico è una prerogativa del cinema italiano fin dall’immediato dopoguerra. Il cinema come mezzo di osservazione del reale non ha potuto nel corso degli anni evitare di raccontare le specificità culturali, linguistiche, ambientali dei dei diversi “pezzi” di Italia. Tuttociò ci spinge a compiere una riflessione che registra una nuova sensibilità verso le storie che hanno come oggetto la resistenza al nazifascismo. Una visione che forse riflette la contemporaneità, priva ormai di riferimenti ideologici ai quali ancorare le nostre convinzioni. Ci sembra questa la prospettiva di una pellicola necessaria che ha reso omaggio alle vittime, i cui nomi scorrono nei titoli di coda prima di superare le nuvole e raggiungere la pace.