29 aprile 1970. Papà è morto… Mi è difficile spiegarmi l’impressione che mi ha fatto il suo volto, in verità è del tutto irriconoscibile. Più che altro mi ricordava le immagini dei morti in campo di concentramento. Era uno dei volti della Morte. Penso a lui da una disperata lontananza, ma con tenerezza...”

Queste parole di elaborazione del lutto paterno, prese da un passo del suo romanzo autobiografico, Lanterna magica, appartengono ad Ingmar Bergman eattraverso la fusione tra capacità  (auto)introspettiva, sensibilità visionaria e il saper cogliere il senso di un istante (“Il cineasta dell’istante” lo definì appunto Godard) restituiscono il significato di un’esperienza personale che toccando così da vicino la natura umana diventa anche universale e assoluta, possiede tutto il peso specifico della precarietà del corpo e di contro rimanda all’idea astratta, filosofica, concettuale della Morte, che tante volte lo stesso Bergman ha cercato di rappresentare, in maniera ora ossessiva ora disperata. Quello che però mi spinge a partire da questo ricordo così privato del grande cineasta svedese per cominciare a parlare di Amour, l’ultima esperienza cinematografica di cui ci rende partecipi lo sguardo di Michael Haneke, è proprio l’aspetto più sentimentale ed intimo delle parole di Bergman o, più nello specifico,il percorso che in quelle parole si compie dal volto irriconoscibile del padre (la morte concreta, reale, contingente) fino ad arrivare alla sua rappresentazione simbolica (la Morte). Leggendo del parallelo tra il volto del padrecon quelli dei morti nei lager nazisti, mi veniva tra l’altro da associare il volto di Emmanuelle Riva, ritrovata oggi, dalla memoria cinefila, in Amour, a quello della detenuta del campo di concentramento fulminata sul filo spinato in Kapò, su cui indugiava, secondo Jacques Rivette, l’immorale carrello di Gillo Pontecorvo.

In una concezione diametralmente opposta rispetto all’abuso “immorale”  del carrello, nella visione di Haneke non trova spazio nessuna concessione virtuosistica alla mdp in quanto mezzo meccanico, ma emerge e acquista  la consistenza della materialità e della fisicità ciò che rientra nella visuale di uno sguardo umanista, dove anche il tempo non è condizionato a un’idea precostruita di narrazione, a un senso già deciso che lo contiene ma è il tempo stesso dei movimenti, dei gesti, delle parole pronunciate dai personaggi a diventare la misura su cui nasce e si allarga o si chiude lo sguardo. Il ritmo interno del  film  afferma la necessità del piano sequenza e viene affidato ai corpi e ai volti attoriali della Riva e di Jean Louis Trintignant, che pur portando sulle loro spalle tutto il peso specifico della stagioni passate del cinema francese mantengono una soavità, una leggerezza intensa, un tono dimesso e quotidiano con cui incarnano questa coppia di anziani dell’alta borghesia che si muovono per le stanze del loro grande appartamento, quasi immediatamente eletto ad unico scenario della vicenda, in grado di ospitare improvvisi squarci di luce come inquietanti e minacciose oscurità o semplicemente sommessi, trattenuti crepuscoli.

Un luogo che è  simulacro di un amore che sopravvive alla vita e alla morte oppure il lager dove la Riva e Trintignant, lei devastata nel corpo e nello spirito da una malattia degenerativa e lui auto-immolatosi ad esserne il custode esclusivo, scorrono  sulla lama sottile del rapporto tra vittima e carnefice. Ma anche lo spazio in grado di suggerire nel rapporto dialettico con l’esterno (l’insistenza sulle finestre che si aprono e si chiudono, su quella porta di casa cosi facile da forzare, sui quadri appesi alle pareti che rimandano a paesaggi sconfinati) la relazione circolare tra la vita e la morte, così come, suggerisce una delle tante suggestioni del film, dovrebbe essere l’Amore che restituisce dignità, identità, umanità e che quando si trasforma in dipendenza, smarrimento (il volto irriconoscibile del padre di Bergman) e sofferenza del corpo e dell’anima non può che diventare “più freddo della morte” come affermava perentoriamente il primo film di Rainer Werner Fassbinder che in realtà con quel titolo proponeva anche una dichiarazione di poetica.

In questo senso così come Fassbinder, anche Haneke si muove dentro quella terra di confine dove convivono vita e morte, desiderio e repulsione, amore e indifferenza e dove talvolta il contrappunto  tra la forma (“L’amore è più freddo della morte”) e il contenuto (“Voglio solo che voi mi amiate” restando sempre nell’ambito dei titoli fassbinderiani), esprime con ancora più forza, più dolore, più strazio il rapporto tra ciò che si vede e ciò che si sente, tra lo sguardo e il cuore. Quello che ci fa vedere Haneke è il manifestarsi di una situazione tra due persone che si amano,che sono state felici, che hanno avuto verosimilmente un’esistenza piena e soddisfacente ma che gradualmente scorticati dall’avanzare impietoso (o forse solo ineluttabile) della malattia perdono gradualmente gli strumenti e le risorse su cui avevano costruito un’intimità e una complicità: per il personaggio di Emmanuelle Riva, colta e raffinata insegnante di pianoforte, c’è la regressione ad uno stato infantile (“Maman!”), la perdita della parola, della possibilità di astrarre con la creatività la propria condizione esistenziale; per Jean Louis Trintignant, dove la distanza con il personaggio si riduce tant’è presente nella sua corporeità (quelle lunghe camminate per i corridoi quella casa, quel dolore introverso e pacato che sembra appartenergli), il lento, metodico, rigoroso spegnersi dentro un isolamento dove più tutto è preciso e accurato nei particolari, più fa avvertire la disperazione senaza fondo, la discesa verso il gesto che azzera tutto e permette di riscrivere un altro finale oppure immaginare o sognare un nuovo inizio.

Perchè in fondo, come si chiede sempre Bergman ricordando  un altro episodio relativo questa volta alla figura materna: “Abbiamo ricevuto delle maschere invece di volti, isterismo invece di sentimenti, vergogna e colpa invece di dolcezza e indulgenza?”.

Nello smascheramento violento, spietato e non indulgente che Haneke compie nel rivelare “come sono veramente le cose” secondo il monito di Roberto Rossellini, ho scorto e voglio conservare la tenerezza di un gesto, di una carezza; la dolcezza della voce e la bellezza del volto di Jean Louis Trintignant, sui cui passa tutto il tempo della vita, della morte e del Cinema.

4 Replies to “Amour-il tempo della vita e della morte in Haneke”

  1. rileggendoti mi viene da chiedermi se l’amore (Amour con la maiuscola) per essere tale (o per farsi tale) debba essere (farsi) anche dipendenza, smarrimento e debba infine attraversare anche il freddo della morte (simbolica ancor prima che effettiva) per diventare quella “terra di confine” propria a chi ha il coraggio di vivere fino in fondo la disperazione della condizione umana. mi sa che è una domanda retorica… 🙂 mi chiedo anche se il sentimento (l’assolutezza del sentimento) cambierebbe in una società diversa che non chiudesse a chiave le persone nel proprio privato abbandonandole nei momenti di difficoltà. un po’ cambierebbe, penso. cambierebbe, cioè, non tanto il sentimento di assolutezza della morte ma la relazione che le persone hanno con essa e, di conseguenza, tra di loro e con il mondo (il rapporto con i limiti, con l’altro, con la natura). e forse avrebbero più a cuore l’etica che la disperazione, forse…

  2. amo questo film, leggere Fabrizio mi fa quasi male per quanto tocca in profondità e svela con leggerezza

  3. È interessante contestualizzare il tema di amour all’interno della società che annienta da sempre, disgrega ed esclude servendosi del sentimento di vergogna (e quindi conseguente chiusura rispetto all’esterno ma anche minaccia di stabilità relazionale) di inadeguatezza nei confronti dei modelli proposti, esasperato dalla impossibilità, dalla povertà, dalla malattia, dalla diversità dove anche ammalarsi e addirittura morire fa business. La morte è inesorabile e democratica come nessuna altra cosa. E loro (seppur alto borghesi) la accettano con dignità e personalità. Ma non si consegnano e Trintignant si auto-esclude in parallelo alla moglie, come un kamikaze a un sistema le cui logiche dis-umane non sono piu condivisibili.
    Bravi tutti!

  4. Bravò, Fabriziò!! Pur se il regista non riesco apprezzare, se non nei meno rigidi frigidi melodrammatici Das weiße Band – Eine deutsche Kindergeschichte e Caché. E bravi (l’attori)tutti!

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