di Roberto Cirillo
C’è stato un periodo quest’estate che fra gli aficionados cinematografici non si parlava che di un film. Questo film ha il titolo, un po’ imbarazzante e ammiccante nel suo doppiosenso che è anche un inside joke, di American Animals. Titolo che fa riferimento al McGuffin attorno al quale ruota il film (che poi solo film non è): Birds of America, un manoscritto originale del 1700 (ovvero, per gli USA, la preistoria, dato che non considerano quella dei nativi una storia cui appartengono, ma fanno risalire la loro data d’inizio dai padri pellegrini) che ritrae la fauna dell’epoca. Ma animali americani sono anche i giovani che tentano di rubare quel libro. Di loro parla questa storia. O meglio, di loro, da loro, con loro, e per loro. Ma anche per noi.
Perché ciò che ha reso questo film un piccolo caso, al di là della storia, è il modo in cui è narrata. O meglio, semi-autonarrata. In una mise-en-scéne, infatti, che gioca fra il documentaristico e la finzione, cade qualsiasi velo di Maya e, coerentemente con il principio di indeterminatezza di Heisenberg che ha mandato in soffitta qualsiasi velleità di non interferenza, alla ricostruzione romanzata degli eventi occorsi si alternano le interviste dei reali protagonisti che narrano i loro punti di vista (tasselli di verità non sempre combacianti fra loro), riferendo i loro sentimenti alla camera fissa.
Il regista Bart Layton fa tesoro di quella che è oggi la lezione impartita dai moderni documentaristi (Free Solo, Oscar 2018), ovvero scarta qualsiasi ipotesi di narrare una storia tirandosene fuori, rimanendo ai, rassicuranti, margini. Ma American Animals alza ulteriormente il tiro e mostra l’incontro fra l’attore/personaggio/persona reale (qualcosa di già visto in un altro film, sempre dall’American nel titolo, Splendor, e splendido lo era veramente), confronto che, in una sovrapposizione ricalcata sul passato, getta poi una testa di ponte sul futuro. Assistiamo, infatti, non solamente al lavoro di ripercorrere, insieme ai protagonisti, le fila della loro storia, snodandone la trama, ma anche all’evolversi successivo della storia, giacché la telecamera, dopo aver ricostruito il tempo -1, degli eventi ricostruiti, segue il tempo 0, quello dei reali protagonisti della vicenda, nel 2018. Ma il film non si limita a questo, e ci mostra come qualsiasi ricostruzione, anche se coinvolge i diretti interessati, non garantisce nulla della veridicità degli eventi. Pur triangolando, infatti, una pluralità di punti di vista (la banda era composta da quattro ragazzi), la verità non si manifesta, anzi, si moltiplica.
Nessuna storia, quindi, può esser narrata imparzialmente, e per il solo fatto che viene narrata, persino avvalendosi degli stessi protagonisti, essa cambia, e anzi, si rifrange e riflette, rimandandosi fra i vari punti di fuga, in un gioco di specchi. Come una sorta di Rashomon, assistiamo alla ricostruzione decostruita, in salsa pop e postmoderna, di un giallo a ritroso, dove si ricompongono i pezzi di un puzzle solo apparentemente già risolto, peggio che in un episodio di Colombo.
Ed è qui che si innesta l’ulteriore senso di cui questo film è vettore, il colpo di coda che colpisce lo spettatore una volta che, oltre la finzione, oltre le telecamere e i microfoni, oltre il trucco e il parrucco, guardiamo questi ragazzi chinare lo sguardo e tornare, dopo il clamore, alla solitudine in cui hanno fronteggiato le conseguenze delle loro azioni, delle loro sbandate. Li osserviamo, in quell’istante, irresistibilmente irretiti dal magnetismo delle loro azioni, dall’ineluttabilità di un destino cui non sono riusciti a sottrarsi. Con cui dovranno convivere sempre. È stata una fatalità, leggiamo nei loro occhi, e quegli occhi ci rimandano uno sguardo sfarfallante. Una semplice deviazione, eppure ha potuto così tanto, ha impattato così irreversibilmente su loro e su altri, sui loro cari, sulle loro vittime. E dopo è solo un’attesa, snervante. L’attesa dell’arresto che fa il paio con l’attesa della pena. Una pena annunciata e dostoevskianamente desiderata. Il desiderio d’espiare, cui segue l’attesa dell’oblio e del perdono.
Il film si ferma. Cala il silenzio. I ragazzi, come degli attori, lasciano il palco, e infilano quel che resta delle loro vite. La realtà ha invaso lo schermo, ha sconquassato tutto, ci ha parlato, e ora che ha finito con noi, ci abbandona. Ma nulla sarà più come prima. Partono i titoli di coda. Risuonano le note di un altro, bellissimo, pseudodocumentario fintamentefinto o realisticamentereale (cosa importa?), quel Searching for Sugarman che, anni fa, tanto fece parlare di sé. Tutto (Synecdoche, New York) sembra indicare (Struggle: The Life and Lost Art of Szukalski) che c’è un nuovo modo per rappresentare la realtà (Tower, di Keith Maitland), che, però, scopriamo essere stato sempre lo stesso (Las Hurdes), l’unico possibile: quella di farci attraversare da essa. Non ci sono argini alla vita, e quando l’arte lo apprende, quando l’artista si lascia possedere dalla realtà (che la verità non è mai unica), tutte le distinzioni sfumano via, verso un tutt’uno. E qui è dove American Animals ci porta.
Dove ci condurrà il prossimo esperimento?