La sindrome di Stendhal. Mi sono sempre chiesto, da quando ho avuto nozione dell’esistenza di questa particolare e rara affezione, che cosa si provasse nell’essere investiti da un sentimento di tale sconcerto e stupore di fronte alla bellezza di un’opera d’arte tanto da psicosomatizzarne gli effetti: allucinazioni, tachicardia, vertigini. Ecco, è stata proprio una vertigine la sensazione fisica che ho provato sulla prima immagine con cui si apre All is lost, strano oggetto filmico proveniente da una cinematografia, quella nordamericana, che nella corrente stagione sembra stia declinando in tutte le forme il concetto di cinema performativo, dove spesso attori già assurti ad icone dello star system, principale nutrimento dell’immaginario popolare, si prestano, in primis attraverso il loro corpo, a mettere in scena una situazione archetipica: la sopravvivenza in un ambiente ostile, minaccioso, insidioso.

Che sia l’ignoto spazio profondo per Sandra Bullock in Gravity, o l’intricato sottobosco di poliziotti ambiziosi, politici corrotti e mafiosi poliglotti per Christian Bale e Amy Adams in American Hustle, o ancora la fitta “giungla” di carnivori speculatori sul piatto della dissanguata economia per il “lupo” Di Caprio, il monito sembra essere sempre lo stesso, anche se ridotto ormai all’osso. Bisogna uscire fuori dal “buco nero”- quello in cui, con altrettanta tenacia seppur in un contesto che veniva dal “basso” cercava di non sprofondare la Rosetta dei Dardenne- e per farlo è necessario mettersi in gioco completamente, assolutamente, anima e soprattutto corpo. Per questo la vertigine che ho provato davanti all’incipit di All is lost è un sintomo emblematico del percorso o, meglio, dell’esperienza a cui mi avrebbe esposto il film: l’oceano sconfinato sullo schermo gigantesco della sala più grande del cinema Reposi di Torino, dove ho visto il film, posizionandomi in primissima fila, quasi sotto la schermo, a voler essere schiacciato dalla potenza di quelle immagini che il titolo evocativo mi faceva sentire come un brivido e un richiamo ad una paura ancestrale.

Tutto è perduto, recita una laconica, dolente voce fuori campo sull’immagine di quell’oceano, con in primo piano la carcassa di una barca che si intuisce dilaniata e ridotta ai minimi termini da una tempesta di cui ora non c’è traccia nella calma piatta dell’orizzonte. Per un attimo che mi è sembrato interminabile ho sentito di essere là, in mezzo all’oceano, con tutte le coordinate della razionalità, del buon senso e della logica smarrite, emotivamente spogliato da ogni aspettativa e ogni forma di controllo su ciò che stavo (sto) vedendo, perso anch’io in quel punto sconosciuto dell’oceano.

Uno stato di totale empatia che avrei condiviso con il mio compagno di viaggio, a cui appartiene la voce che ho sentito all’inizio. Dal manifesto del film so già che si tratta di Robert Redford, il divo di Hollywood, uno per cui tale espressione ha ancora un senso: un sapore mitologico da una parte, mentre dall’altra apre una porta su un’epoca cinematografica, gli anni  ’70, in cui alla morte del system (studio o star che fosse) era subentrata una stagione di consapevolezza con il concetto di “autorialità”, mutuato dal cinema europeo in generale e francese in particolare. Redford si era mosso a cavallo tra un ‘epoca e l’altra, e poco prima di entrare in sala a vederlo destreggiarsi contro le intemperie della natura, mi ero imbattuto in una sua foto che un po’ riassume il significato della sua figura cinematografica.

Un’immagine presa da Butch Cassidy, western demitizzante e cialtronesco, meno disperato e nichilista del contemporaneo il mucchio selvaggio (siamo nel 1969), in cui Redford appare con un altro divo di Hollywood della generazione appena precedente, Paul Newman, anche lui in sintonia con le inquietudini e le tensioni che sarebbero scoppiate nel decennio ormai alle porte. Quel film in fondo era un buon compromesso di ciò che Hollywood era stata, quella che era in quel momento e ciò che sarebbe diventata; e, tra l’altro, era già un’idea di cinema performativo, la perfomance di due divi alle prese con personaggi in bilico tra l’epica romantica dei fuorilegge, Butch Cassidy e Sundance Kid, e l’ironia dissacrante e canagliesca di anti eroi che si ribellano al sistema, seppur sulle note gradevoli e rassicuranti della celeberrima  Raindrops keep fallin on my head.

Robert era bello in una maniera troppo eclatante, come del resto anche Newman, per essere maledetto fino in fondo, ma aveva già scrostato la sua immagine dalla vetrata della chiesa in cui veniva celebrato il culto degli dei pagani di Hollywood scendendo a terra e contaminando la sua prestanza fisica con il fango, l’erba, le corse senza fiato, i tuffi nel vuoto, i paesaggi incontaminati della frontiera  alle soglie dell’occupazione industriale. Aveva portato sulle sue spalle robuste e sul volto dall’espressività sobria, a tratti monocorde, le coordinate smarrite di un popolo che rileggeva la propria Storia con una struggente, lirica consapevolezza dei suoi spazi e dell’Altro da sé (Corvo rosso non avrai il mio scalpo anti-western ben più memorabile di Butch Cassidy) e che guardava il presente con lucidità mista a sgomento e disperazione (I tre giorni del Condor, thriller politico realizzato nel mezzo del Watergate). Dopo l’iniziale smarrimento in mezzo all’oceano, ammetto dunque di essermi commosso nel ritrovare quel Redford che ricordavo, con una fisicità non più tanto prestante, le mani e il volto raggrinziti dalle rughe, ma comunque presente, sullo schermo, a mettere in scena se stesso come naufrago solitario all’affannosa, tenace, pragmatica ricerca di risorse fisiche, mentali, emotive per resistere a una natura filmata secondo gli aggettivi di una memorabile definizione che ne diede Werner Herzog, uomo e cineasta che ha combattuto contro e per Lei tutta la vita: “stupida, oscena e sbagliata, vitale perché primitiva, casuale e irripetibile”.

Lo sguardo del regista J.C. Chandor costruisce questa dialettica tra il volto di Redford, che nell’inasprimento della situazione trova nuove e inesplorate risorse espressive, in particolare quando gli ultimi bagliori di pragmatismo e buon senso crollano, e l’oceano, altro essere vivente mosso tra furore e quiete, dinamismo e staticità.

Eppure il Redford di oggi non è figlio del Redford degli anni ’70. Il naufrago senza nome e senza storia di All is lost  non è riconducibile, nei suoi comportamenti e nelle sue azioni, a nessuna ideologia, a nessuna cornice psicologica: non è dato sapere che cosa pensi o che cosa provi, non sappiamo nulla della sua storia, del suo passato, del perché si trovi in quella situazione. A chi si sta rivolgendo nelle poche parole intrise di rammarico e anche di una forma di pentimento che pronuncia? Mentre in Gravity era palpabile la presenza del fantasma della figlia morta della Bullock, qui non ci sono altri dial
oghi o altre figure umane per tutta la durata della vicenda, a parte forse un barlume di speranza nel finale. Sono convinto che una commozione cosi profonda sia stata “mossa” dall’incontro con quel vecchio uomo di 76 anni che non ha più bisogno di nascondersi dietro nessuno status costruito dal logos, ma che ha introiettato dentro di sé i silenzi e il caos della natura.

Per questo, tornando col ricordo, mi ritrovo di nuovo in quel punto, in mezzo all’oceano. Non più per essere salvato da Sundance Kid, Jeremiah Johnson o dal cavaliere elettrico. Ma per un momento di consolazione reciproca nella paura e nello sconvolgimento del mondo fuori e dentro di noi.

One Reply to “All is lost-Tutto è perduto: è sempre buio prima dell’alba,Bob”

  1. Un commento completo che tocca tutto, aggiungerei: il vecchio leone Redford non ha più nulla da guadagnare e perdere, con questo film lo dimostra, e ci lascerà, tuttavia augurandogli lunga vita, una grande prova di presenza scenica e di personalità, al di sopra di ogni cliché.

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