Abbiamo incontrato Alina Marazzi a Roma, qualche tempo fa. Portava disinvoltamente un discreto pancione (e’ il suo secondo figlio) e abbiamo piacevolmente conversato sui suoi film e sugli argomenti che hanno sollevato e che ci hanno sempre particolarmente interessato. Alina Marazzi e’ un’autrice che si esprime attraverso documentari narrativi, o “percorsi di conoscenza” come lei giustamente li chiama, che mostrano principalmente repertorio e riprese documentarie, ma si rivolgono alla parte piu’ intima dello spettatore, come film autobiografici. A oggi sono usciti Un’ora sola ti vorrei (2002), Per sempre (2005) e Vogliamo anche le rose (2007).

Vogliamo anche le rose, attraverso storie personali, racconta l’emancipazione della donna negli anni ’70, concludendosi con un bilancio di sconfitta. Giudicando quelle lotte con il senno di poi, rapportandosi all’oggi, ti sembra che quelle conquiste siano state solo un progresso della condizione femminile o che abbiano comportato per le donne anche qualche prezzo alto da pagare ?

Come tutti i cambiamenti ci sono aspetti positivi e negativi. Mi viene da pensare che quello comunque era un processo inevitabile di trasformazione della società e infatti anche il film è costruito in questo modo: il femminismo, cioè, è una parte di questo processo di trasformazione. La parte del femminismo a cui ho voluto dare voce è quella della piazza, esperienza che si conclude alla fine degli anni ’70 così che dopo la Legge 194 e dopo le grandi manifestazioni si avverte questo senso di chiusura. Poi, nei primi anni ’80 il femminismo prenderà altre vie, altre strade, più teoriche e meno di coinvolgimento di massa e collettivo, quindi il commento pessimista che Valentina fa alla fine del diario è sicuramente un commento sulla crisi di una prima modalità di femminismo. Il film non è comunque un film a tesi, non ho iniziato pensando di finirlo con questa nota pessimistica. Attraverso le voci e i documenti ho cercato di ascoltare quello che queste tracce, rimaste e poi ritrovate nei vari archivi, avevano da raccontare. In qualche modo, ho ritenuto importante dare voce a questo commento amaro su un certo tipo di privilegi.

Penso, tuttavia, che ci siano degli effetti collaterali negativi del femminismo con cui ci ritroviamo a fare i conti oggi: si danno per scontate molte cose, di molti diritti che sono stati acquisiti faticosamente non si conosce l’origine, né forse si è coscienti di quanto possa esser facile “tornare indietro”. Sono lì a testimoniarlo i fatti accaduti (in Italia) negli ultimi mesi. La mia intenzione non era tanto di dare un giudizio sul passato ma di riflettere sul presente riascoltando quello che era accaduto allora. Penso, ovviamente, che oggi sia meglio di un tempo per le donne, però anche il discorso sulla libertà sessuale, ad esempio, si ritrova a dover fare i conti con un suo esercizio spesso non consapevole. In questo senso il modello della velina è magari più “consapevole” della donna oggetto di trenta anni fa, ma questo non vuol dire che sia meno problematico. Alla fine, purtroppo, occorre constatare che è vero che il mercato è più forte dell’individuo.

Pensando ai tuoi film emerge l’impressione che il tuo sia uno sguardo, un approccio riconciliatorio più che rivendicativo, teso alla conoscenza e alla riappropriazione di un periodo in qualche modo rimosso, e questo vale per Un’ora sola ti vorrei (il suicidio della madre), Per sempre (la scelta fuori dal mondo della clausura), Vogliamo anche le rose (la stigmatizzazione generalizzata del femminismo da parte dei media di oggi). Una ricerca sulla memoria per conoscere il presente…

Sicuramente i miei film rispecchiano un mio atteggiamento, un mio modo di vedere le cose, sono un percorso di conoscenza piuttosto che dei film a tesi, piuttosto che dei film, appunto, rivendicativi. Anche Vogliamo anche le rose, in qualche modo, avrebbe potuto avere più elementi urlati, invece ci tenevo ad alleggerire la tematica con delle sottolineature ironiche. In Un’ora solo ti vorrei, invece, ho alternato momenti più drammatici con altri più sospesi, più poetici.

Nei tuoi film c’è un flusso emotivo molto forte espresso attraverso una visione “soggettiva” delle cose (per esempio l’uso dei diari o della voce), e questo in un documentario, di solito più orientato ad una visione oggettiva della realtà, è abbastanza originale. Il tuo sembra uno sguardo relazionale in cui le idee (espresse ad esempio dall’uso marcato del montaggio e dal ragionato raffreddamento della materia) dialogano con le emozioni…

Rispetto a quello che normalmente si pensa del documentario, ovvero che è comunque un tipo di espressione più informativa che riporta fatti, notizie, eventi, questi film sono costruiti con un’intenzione narrativa più forte, sono la narrazione di storie di vita. Allora, in questo senso, in Vogliamo anche le rose c’era da subito questa intenzione di intrecciare il vissuto soggettivo di alcune donne con il racconto degli eventi collettivi e di creare, così, questo dialogo tra il vissuto privato e quello che succedeva fuori. Ma al tempo stesso c’è questa forte relazione tra me, noi, che facciamo il film e il tema e i personaggi del film e questo è un processo che è più facilmente rintracciabile nel cinema, nel buon cinema di fiction. Nei miei film c’è un’intenzione di narrazione e di messa in scena che non è proprio tipica del documentario, che riesce a far scattare l’immedesimazione.

Pensi di poter usare in futuro un linguaggio più propriamente di fiction oppure continuerai così, con l’uso del repertorio…

Non lo escludo, però non mi vedo a fare un film di fiction classico, con un processo di lavoro che parte da un’idea o magari da un libro già scritto, poi passa alla sceneggiatura e poi dalla sceneggiatura alla fase di realizzazione… anche perché non è attraverso la scrittura che arrivo a fare questi film. In ogni modo, già in Vogliamo anche le rose c’è un lavoro di sceneggiatura e di “messa in scena”, anche se  naturalmente non ci sono gli attori che recitano…

Da quale esigenza nascono i tuoi film e qual è, allora, il percorso con cui arrivi poi a realizzarli?

Vogliamo anche le rose e Per sempre nascono da un interrogativo su un tema, anche molto vasto: in Per sempre è l’interrogativo su una scelta definitiva come la vita di clausura, un tema che poi andava declinato anche lì in alcune storie, in un percorso di conoscenza. Ugualmente, in Vogliamo anche le rose c’era un’idea iniziale, che era quella di ripensare a quegli anni e al tema della libertà e della liberazione sessuale, un tema vastissimo che si è innestato poi su un mio percorso di conoscenza, anche inconsapevole, che alla fine mi ha portato a fare qu
el film, che nasce dunque anche da un’esigenza personale.

Per quel che riguarda il linguaggio espressivo, in Vogliamo anche le rose mi è stato subito chiaro che avrei usato del materiale di repertorio, mescolando diversi linguaggi come l’animazione e i diversi linguaggi cinematografici proprio all’interno del repertorio, dal filmato di famiglia al cinema sperimentale al cinegiornale. Questa era una scommessa, non era detto che poi sarebbe sicuramente riuscita. In Per sempre il discorso è diverso in quanto il linguaggio è più classico, bisognava fare una sorta di inchiesta che comprendeva le interviste, anche molte di più di quelle che compaiono nel film, e poi le riprese dei luoghi, dei personaggi, che ho tentato di descrivere nella loro vita e nella loro giornata.

Questi tre film sembrano una trilogia, perché c’è sempre il vissuto femminile che cerca di usare il personale per raccontare l’universale. In Un’ora sola ti vorrei, in particolare, parti da te ma riesci a toccare corde universali. C’è, insomma, il ricorrere di una prospettiva di fondo…

Sicuramente c’è il tema del femminile, e questo lo dico perché alla fine ci sono cose che possono interessare me… E dunque questi film sono tutti percorsi di conoscenza e di ricerca dai quali sono uscita trasformata, arricchita. Si potrebbe dire che li faccio in primo luogo per me, “egoisticamente”, e solo in secondo luogo per creare qualcosa. Vado a scegliere dei temi che mi stanno più a cuore e se mi stanno a cuore, evidentemente, ci metterò più impegno, più coinvolgimento per indagarli.

“Il personale è politico”, pratica tipicamente femminista, ovvero la narrazione individuale che diventa universale…

In Vogliamo anche le rose la storia era quella e poteva essere raccontata solo in quel modo, con quegli elementi, cioè i diari, le lettere, i filmati di famiglia. E c’è stata, infatti, una lettura anche “femminista” da parte di molte donne che, nonostante abbiano avuto vissuti diversi, si sono riconosciute in quel tipo di linguaggio e di narrazione. E in effetti Vogliamo anche le rose riprende laddove la storia di Un’ora sola ti vorrei si interrompe, negli stessi anni, e racconta le storie di tante donne. Mentre a mia madre, dunque, stava succedendo “quello” ed era ormai completamente isolata e prigioniera del suo percorso, contemporaneamente stavano accadendo tutte queste altre cose. I due film, quindi, sono fortemente legati. Rispetto agli elementi comuni a tutti e tre i film, dunque anche a Per sempre, e queste sono riflessioni che faccio a posteriori, posso dire che al centro ci sono sempre dei personaggi femminili che non riescono ad aderire a dei modelli, sia che siano modelli che vengono dall’esterno, che so, dalla famiglia, dalla società, dalle convenzioni, come nel caso di Un’ora sola ti vorrei, sia che se li scelgano loro stesse come le monache di clausura in Per sempre. Anche lì, infatti, c’è un personaggio come quello di Valeria che, nonostante abbia scelto la clausura, poi non riesce a starci dentro. Ugualmente le donne di Vogliamo anche le rose, che rappresenta storie non proprio tipiche, storie esemplari ma non rappresentative di quegli anni. In questo senso, allora, anche la critica che alcune femministe hanno fatto al film è che il personaggio femminista, Valentina, non è così positivo: è piena di dubbi, mette in crisi tutto, e quindi anche lei nell’aderire al modello di donna emancipata, sessualmente liberata, militante, non riesce comunque ad essere “felice”.

Valentina, infatti, dice testualmente “che non riesce a godere di ciò per cui lotta…” Un’ora sola ti vorrei rappresenta una storia privata: ci sono per te dei limiti nella rappresentazione delle storie altrui?

Ci sono dei limiti, certo! Quel film è iniziato in maniera molto privata, io non avrei mai immaginato che sarebbe diventato un film destinato al pubblico. Ho iniziato a farlo per me, e quindi anche tutte le responsabilità sulle questioni che riguardano il potersi permettere o meno di esporre una vita privata, le frasi, i diari me le sono assunte io perché tanto il film, in quel momento, era solo per me. Nel frattempo il film si era andato costruendo in una maniera narrativa, e quindi più ci lavoravo, ovviamente non da sola (principalmente con la montatrice Ilaria Fraioli, ndr), più mi rendevo conto che forse era una storia che andava raccontata al di là del valore che poteva avere per me. Il film inizia con il frontespizio del diario che dice “per favore non leggete questo diario”, e dunque il fatto di averla messa nel film è come una dichiarazione di intenti da parte mia, come a dire “io, invece, questo diario lo apro, e quindi mi assumo la responsabilità di renderlo pubblico”. In modo diverso, questo accade anche nell’utilizzo dei diari dell’archivio di Pieve Santo Stefano in Vogliamo anche le rose: è vero che i diari erano già stati depositati dalle autrici nell’archivio, con l’accesso libero, ma in ogni caso ho chiesto l’autorizzazione, ho spiegato come li avrei utilizzati, che cosa avrei scelto. Ma questa è una questione che riguarda anche il diritto allo sfruttamento delle immagini di repertorio, perchè di fatto tu utilizzi delle cose dette dieci anni prima da qualcuno che potrebbe aver firmato all’epoca una liberatoria, ma che potrebbe anche non averlo fatto, e che potrebbe oggi non ritrovarsi più in quelle sue dichiarazioni.

In tal modo il valore della testimonianza assume una forza dirompente: sono storie private che diventano simboli e possono testimoniare un percorso, un’epoca…

Sì, lo penso anch’io. Al di là del mio percorso c’è, infatti, oggi questa tendenza, penso anche alla storiografia, a considerare la Storia non attraverso gli eventi ufficali pubblici ma attraverso i vissuti delle persone. E infatti c’è molto interesse per il filmato di famiglia, per il filmato amatoriale, per i diari, e non solo nell’ambito documentaristico e cinematografico, ma anche nell’ambito della ricerca storica.

Anche in televisione, se vogliamo, e in maniera forse più deteriore e radicalizzata, c’è questa tendenza ad usare i vissuti privati delle persone: pensiamo soltanto ai reality show e ai programmi di cronaca…

In senso meno deleterio ci sono iniziative come la banca della memoria, che stanno sorgendo in molte città, che rispecchiano un po’ questo valore che si dà oggi all’esperienza personale.

Di analizzare, cioè, la complessità attraverso delle narrazioni soggettive…

Sì, e questo penso che sia un’eredità della pratica femminista, perchè il femminismo ha fatto questo per la prima volta e, per fortuna, è diventato qualcosa di diffuso. Mettersi in relazione con il collettivo, parlare di sé e riconoscere negli altri le stesse esigenze…

Rispetto a questo valore universale dato a storie personali femminili, qual è la reazione degli uomini? Riconoscono questo nesso o magari continuano a considerarle solo storie private? 

Beh, dipende dagli uomini! C’è lo spettatore che si ferma davanti al tema e allora vede che ci sono solo dei personaggi femminili e non riesce ad andare oltre, e c’è quello che fa questo passaggio e si riconosce non solo nei pochi personaggi maschili, quanto piuttosto in quelle problematiche, in quel modo di affrontare le cose… e quindi c’è un livello di identificazione. Anche se è vero che la maggior parte del pubblico maschile non è così attratto dai miei film in quanto raccontano storie che parlano di donne.

Forse molti si fermano all’apprezzamento per l’aspetto poetico delle tue storie o per lo stile dei tuoi lavori, ma si rifiutano di andare oltre e di considerare le donne protagoniste dei tuoi film come rappresentanti di una “condizione femminile”…

Sì, forse questo è un problema che esiste… Nell’edizione di Vogliamo anche le rose uscita con Feltrinelli, alla fine ho messo questo giochino interattivo “Trova la donna che è in te” che, nelle intenzioni, sarebbe rivolto anche agli uomini…

Un po’ provocatoria come cosa!

Sì… Ci sono una serie di domande, come nei cartoni, e poi viene fuori la sequenza che corrisponde al tuo tipo di donna, e allora pensando di farlo così è un gioco rivolto, appunto, anche agli uomini. Così che anche un uomo può riconoscersi nella donna puritana anni ’50, oppure nella donna che balla nuda a parco Lambro, oppure nella donna militante…

Noi ti conosciamo solo da Un’ora sola ti vorrei: che cosa c’è stato prima?

Prima ho fatto diversi lavori, principalmente documentari, per la televisione, dunque con la produzione. Lavori su commissione ma in ambiti produttivi piuttosto liberi, quindi è stata una buona scuola. Nel 1991 ho girato il mio primo documentario “personale”, l’ho ambientato in Sicilia e le protagoniste erano donne che raccontavano come avevano visto l’emigrazione degli uomini che andavano mentre loro rimanevano. Successivamente ho realizzato documentari a tematica sociale o culturale, poi c’è stata un’esperienza relativa al carcere, ho infatti collaborato col carcere di San Vittore a Milano, e ho fatto anche un documentario sul carcere minorile per Rai 2. Contemporaneamente diversi lavori da aiuto regista per il cinema, insomma, quello “romano”. Ho anche lavorato con lo Studio Azzurro che è un gruppo che fa videoarte.

In effetti si vede l’influenza della videoarte nei tuoi lavori…Come sono i tuoi rapporti con la produzione?

Diciamo che ho la fortuna di lavorare con un gruppo produttivo che è lo stesso da più di dieci anni, siamo cresciuti insieme e abbiamo quella fiducia reciproca e quella libertà che, appunto, permette di realizzare dei film del genere. Vogliamo anche le rose è l’unico film che ho iniziato a girare con un budget già chiuso, più o meno, mentre gli altri film sono stati realizzati sempre un po’ in corsa. La produzione è dunque un luogo dove ci sono degli interlocutori, è un luogo positivo.

Hai dei modelli e degli autori che hanno ispirato i tuoi lavori?

Ci sono molti registi che mi piacciono ma non c’è un modello che seguo, le cose che mi colpiscono di più, poi, non vengono dal cinema, da quello che si vede in sala. Ho visto pochi giorni fa la mostra di Bill Viola e allora ecco che trovo molto più ispirazione nella mostra di un videoartista che in un film. Ma dipende, ovviamente.

Che progetto hai in cantiere ora?

Alina si indica il pancione da gravidanza avanzata…Risate.

Ora, sì, effettivamente mi sto occupando di altro… Sto però riflettendo su un film sempre intorno a delle tematiche femminili, ma con la maternità non si sa mai…

 

Nel racconto inserito nella raccolta “Tu sei lei” (Minimum Fax) parli, in qualche modo, dell'”aggressività della maternità”. E’ un tema scomodo e interessante…

Sì sì, è un tema che anche a me interessa… Risate. Perchè è un altro di questi temi di cui non si parla, molto condizionato appunto dai modelli. Ad esempio in Italia, ancora oggi, se non fai figli sei considerata un po’ meno donna.

Oramai sempre più spesso si rinuncia a fare dei figli: sembra un po’ il prezzo che occorre pagare al percorso dell’emancipazione… C’è, insomma, e i tuoi film ne parlano, un’ambivalenza forte nel considerare la maternità.

Moltissimo, c’è moltissimo. In ogni caso penso, anzi, lo spero, che sia una fase obbligata dopo una fase altrettanto obbligata in cui, viceversa, non si poteva decidere di non volere dei figli. Forse le donne della prossima generazione avranno un rapporto più tranquillo ed equilibrato con la maternità e forse torneranno a fare figli a venticinque anni e non a quaranta, come adesso, con un’energia diversa e con meno aspettative.

(montaggio video a cura di Sergio Ponzio)

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