[**] – In una Londra vittoriana la giovane Alice (Mia Wasikowska) viene promessa in sposa a un goffo e presuntuoso lord, ma preferisce seguire il Bianconiglio per fratte, in un mondo dove le asfissianti regole sociali, la rigidità degli orizzonti e il ruolo subalterno di una giovane donna cedono il posto a bizzarre creature colorate e al sovvertimento dei luoghi comuni, un luogo dove anche una ragazza insofferente alle convenzioni può divenire protagonista e, letteralmente, paladina del bene. Ma il sottotesto – che trova piena espressione nella cornice iniziale e finale del film – ha il fiato molto corto, non reinterpreta adeguatamente un testo sacro della letteratura inglese e non aggiunge niente di rilevante alla poetica di Tim Burton. Anzi, il regista sembra appropriarsi di un celebre format, con annessi scenari, personaggi e giochi di parole assortiti, per impiantarci dentro una banale lotta fra bene e male senza respiro o epica adeguati. In fondo è un bene.

Trasformare il Paese delle Meraviglie in una succursale della Terra di Mezzo, barattando gli orchi con soldati appiattiti, sembra un pessimo affare. Alice è circondata da una tale criccca di deficienti nel “mondo normale” che la sua fuga appare subito spogliata da ogni trasgressione. E nel Sottomondo non c’è percezione di una minaccia reale, né resta traccia della sottile, inquietante ambiguità che ciascun personaggio possedeva nell’originale. Non che manchino spunti visivi, effetti speciali adeguati e un make up eccellente. La sensazione è quella di un regno che può essere arricchito, ma non reinventato, nel quale Burton si muove come un intruso, alla ricerca degli spunti gotici a cui è tanto affezionato, che però il drago anoressico Ciciarampa e qualche spruzzata di nebbia qua e là non sono in grado di colmare. Con una certa malinconia, si ha l’impressione che il regista sia passato dalla potente inventiva dei suoi primi freak – che trovavano nel trucco estremo la forza per esprimere la loro insanabile diversità – a un vuoto riciclo di luoghi comuni sulla poesia dei folli e dei bislacchi, alla quale un trucco sapiente e colori psichedelici non sanno infondere il necessario per far sorridere o commuovere. O forse manca solo la cattiveria di una volta, una sceneggiatura incisiva, la capacità di tenere a freno il cattivo gusto, come testimonia l’imbarazzo in sala durante la “Deliranza” finale del Cappellaio… Nella latitanza del sense of wonder(land), facendosi strada tra la frigidità e la sovrabbondanza degli effetti digitali, si cerca conforto nelle interpretazioni degli attori, ma il quadro non cambia: l’impressione generale è il tentativo di una messa a fuoco del senso, di una chiave che continuamente sfugge, perché dei memorabili personaggi di Carroll sembra essere rimasto appena il nome.

L’Alice della Wasikowska appare annoiata, come fosse lei la prima a non crederci, ed è un peccato considerato il talento e la bellezza sfuggente di un’attrice che già si fece apprezzare nella serie televisiva (di nicchia) In Treatment. Johnny Depp, nel ruolo del Cappellaio Matto, fa il suo, ma non risulta chiaro se sia un tutore troppo infantile, un folle che custodisce una saggezza nascosta o appena un roscio coi capelli dritti e gli occhi al quarzo. È irrisolto senza essere sfaccettato, problema che condivide con lo Stregatto, il Bianconiglio, il Leprotto e i due gemelli Pincopanco e Pancopinco, che risultano faticosi, sovrapponibili e poco necessari. Il Brucaliffo irritante e mellifluo dell’Alice a cartoni che guardammo da bambini, poi, è soltanto un ricordo. Qualcosa in più ce lo mette il talento di Helena Bonham Carter nei panni della Regina Rossa, e un accenno di ironia salva ai punti la trasognata Regina Bianca (Anne Hathaway). Ma il prodotto finale è comunque in passivo. Forse Tim Burton ha sprecato la sua grande occasione nel confronto con un’opera che sembrava cucita su misura per lui – e non si riesce a capire il perchè di un approccio tanto svogliato alla materia. O forse il suo talento più genuino sta nell’ammannire piatti sorprendenti e originali a partire da materiali poveri, inventando dal nulla universi personali e capricciosi, senza dover ubbidire a codici e regole ormai fissati nel mito, che possono essere violati solo a patto di partorire un capolavoro. È una grossa responsabilità, e almeno per stavolta Burton non ha avuto abbastanza coraggio.

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