La pelle bianchissima e il colore rosso dei capelli, quel volto dai lineamenti taglienti, dalla forma allungata, irriducibile a qualsiasi categoria di bellezza o di bruttezza, ma che sa colpire lo sguardo come passare inosservato, diventare strumento su cui far vibrare le passioni più forti e al tempo stesso espressione dolente di una normalità che soffoca la naturale irrequietezza. Nessun’altra attrice italiana avrebbe potuto interpretare la figlia di Tilda Swinton, grande icona anarchica del cinema contemporaneo, e non solo per l’evidente somiglianza fisica che accomuna Alba Rohrwacher alla carismatica attrice scozzese. Più di qualsiasi ragionamento quest’idea di continuità passa attraverso un momento di cinema particolare di Io sono l’amore, il film di Luca Guadagnino che ha segnato l’incontro tra le due donne, tra l’altro uno dei pochi attimi di autentica emozione all’interno dell’artificiosa e manierata opera del regista milanese. Si tratta dello sguardo finale che la Swinton, matriarca dell’alta borghesia industriale milanese, lancia alla Rohrwacher, la figlia amatissima, prima di abbandonare la sontuosa dimora familiare per inseguire l’amore incarnato nel corpo del giovane cuoco Edoardo Gabriellini. Il controcampo dell’attrice fiorentina, attraverso un gesto del capo e un’intensa, struggente luminosità del viso, esprime quella necessità di adesione incondizionata a seguire la propria parte istintuale, emotiva, primordiale, riassumendo il senso della perentoria affermazione del titolo e creando solo per le due donne la possibilità del superamento della morte (quella del figlio e del fratello prediletto, interpretato da Flavio Parente) e la tensione verso la vita
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Nel film, tra l’altro, Alba interpreta una ragazza che si rende conto della sua diversità sessuale, ma che invece di viverla come colpa e tormento, la accetta come riconoscimento della propria natura, in un percorso di rivelazione di se stessi inevitabile quanto concepito, in questo caso, in chiave liberatoria e positiva. Perché nelle sue folgoranti apparizioni delle ultime due o tre stagioni del cinema italiano Alba ha spesso scandagliato anche aspetti contraddittori, sfumati, ambigui delle donne che è stata chiamata ad interpretare, portando un valore aggiunto, che esige un discorso autonomo, rispetto agli stessi film di riferimento, tracciando un breve percorso non lineare, una mappatura di macchie rosse, di fragili ribellioni e nevrotiche passioni.
Tutto il vissuto di un personaggio non è più rinchiuso o limitato nella durata temporale della sua presenza all’interno della storia, il modo di interpretare della Rohrwacher scava in profondità dentro un gesto o una battuta e cerca di rompere gli argini della percezione psicologica ed emotiva dello spettatore, lo spazio di libertà che lascia la curiosità di saperne di più sui ruoli da lei interpretati, su ciò che nascondono dietro un movimento o una battuta. Come quando, sull’autobus, ci capita di osservare una persona che colpisce la nostra attenzione e immaginiamo quale storia le appartenga, cercando di cogliere da piccoli particolari un indizio che possa alimentare ipotesi o suggestioni.
Quando Alice, la figlia di Antonio Albanese e Margherita Buy che Alba interpreta in Giorni e nuvole, discutendo con il padre che non approva il suo compagno gli urla contro “Alice non abita più qui!”, in quell’espressione tra il sarcastico rimando cinefilo e la rabbia tremante della voce che rivendica la scelta personale c’è un misto di decisione, consapevolezza, azzardato coraggio con accenti di turbata insicurezza di chi si oppone anche e solo per infantile disobbedienza all’idea di autorità paterna. Soldini non ha bisogno di approfondire ulteriormente il personaggio di Alice, basta una scena successiva in cui Alba entra nella stessa casa dove non abita più e getta le braccia al collo di quel padre che ha scoperto essere vulnerabile, sull’orlo del fallimento economico ed esistenziale. Forse potremmo definire la Rohrwacher un esempio di attrice anti-voyeuristica, nel senso che rifugge da qualsiasi esibizione esteriore, sposta l’attenzione dal centro e ci porta là dove i suoi personaggi realmente vivono, a volte ai margini, altre volte su un pianeta differente che però è sempre la terra, solo osservata da un’ottica altra: la Terra vista dalla luna citando il film di Pier Paolo Pasolini e l’Assurdina Cai di Silvana Mangano che ne era la protagonista e di cui Alba riprende il bianco pallore.
Personaggi che non si lasciano spiare, ma che richiedono un’attenzione e un ascolto che stigmatizzi i clichè e le trappole in cui è facile cadere quando si ha una fisicità così caratterizzata e ci si confronta con dei ruoli fortemente segnati dall’immaginario collettivo, come poteva essere per la psicolabile omicida de Il papà di Giovanna, diretto da quel grande valorizzatore di attori diversi che è Pupi Avati. Ciò che colpisce e lascia ammirati è la costanza, la perseveranza con cui Alba tiene sintonizzata se stessa e lo spettatore sulla nota del sentimento di disperato attaccamento alla vita di Giovanna, questa sua necessità di esserci e di sentire nuovamente espressa con la più debordante efficacia nella fisicità di un ballo in piazza interrotto da un crisi isterica o dei calci e pugni rivolti all’angusto spazio di una cella. L’evoluzione di un personaggio, in questo caso raccontato nel passaggio cruciale tra l’adolescenza e l’età adulta, che non segue la consequenzialità dei fatti, ma resta in comunicazione con una maturazione interiore per cui la scelta di AlbaGiovanna di andare a chiedere scusa alla madre della ragazza che ha assassinato arriva come necessaria e non come dovuta.
Ha saputo vedere con attenzione Giorgio Diritti, un autore alla ricerca della verità e dell’essenzialità del gesto e della parola, nel ritenere che Alba potesse penetrare senza forzature o stacchi il mondo anche linguisticamente arcaico dei contadini delle colline bolognesi nei primi anni ‘40, nella toccante rievocazione della strage di Marzabotto in L’uomo che verrà. Una compenetrazione sorprendente vista la commistione tra attori professionisti e autentici contadini, tra volti che sono appartenuti ad altri personaggi e volti la cui riconoscibilità è data unicamente dal fatto di essere espressione di quella realtà specifica. Parlando del lavoro preparatorio per un ruolo, Sissy Spaceak, anche lei rossa e bianchissima di carnagione, ha dichiarato di spogliarsi metaforicamente di tutto il superfluo per essere pronta ad accogliere il personaggio. Nel caso di Alba, con Diritti si trattava di accogliere la dignità, la semplicità, la cocciutaggine di un popolo, di stabilire una sintonia questa volta con dei valori che da personali sono diventati universali. E anche qui c’è un momento in cui capiamo perfettamente quanto l’attrice abbia compenetrato il senso della storia, quando dopo essere sopravissuta ad una prima esecuzione, tratta in salvo da un ufficiale tedesco al quale aveva mostrato comprensione in una precendente scena, davanti allo stesso uomo che uccide a sangue freddo un bambino spaventato non esita a trafiggerlo con un bastone, decretando la propria condanna a morte e mostrando quanto la vita individuale si perde dentro la tragedia e il dolore della collettività.
Tutto questo per tornare a raccontarci la tragedia e il dolore privati, intimi del corpo e delle sue pulsioni, richiamata dall’occhio di Silvio Soldini che non ne segna un cambio di immagine, ma pone l’attenzione su quella sessualità esplicita, compromissoria, animalesca fino a questo momento rimasta fuori dall’orbita delle donne interpretate da Alba, se non in potenza. Anche se l’Anna di Cosa voglio di più, instabile affamata d’amore e di vita contro l’asfissiante microcosmo piccolo-borghese, è un sorella più matura e livida della Lucia, lavoratrice in equilibrio sul precariato esistenziale e professionale in Riprendimi, la scelta di seguire fino in fondo l’intuizione della passione e consumarla in una scomposta precarietà di luoghi e situazioni (i rifugi dei due amanti fotografati come degli antri bui squarciati di luce) sta dentro tutte le storie che Alba ha attraversato o potrà attraversare. Citando ancora la Spaceak, Robert Altman, parlando del perché l’avesse scelta per interpretare il suo Tre Donne, disse che gli aveva dato l’idea di essere un’aliena caduta sulla terra, decisa ad appropriarsi dell’identità di qualcun altro. A dire il vero lui diceva proprio rubare, un termine che non credo si addica ad Alba, viaggiatrice e custode di identità femminili e che non mi sorprenderebbe incontrare un giorno su un autobus oppure sulla Luna.