di Stefania Bonelli/ Un gruppo di giovani balla all’unisono come fosse sul palcoscenico di un musical americano sulle note di Go West! dei Pet Shop Boys. La macchina da presa scende verso di loro e si avvicina. È il Capodanno del 1999 ma non siamo in Occidente. Ci troviamo in Cina, a Fenyang, tra fiume e montagne come recita il titolo originale. Ma l’inquadratura è tutta tesa verso l’altrove, richiamato dal volume dell’incalzante ritmo musicale, impressa nella gioia espressiva di questi allegri volti danzanti, colorati e pieni di speranza. A ben guardare non si capisce bene in che luogo preciso di Fenyang ci si trovi: un garage, il piano di un centro commerciale, il palcoscenico di un teatro vuoto. Ovvio che l’ambiguità non sia casuale e che proprio quest’apertura anticipi, nell’ultimo film di Jia Zhangke Al di là delle montagne, quella che sembra essere la tematica del film, già presente in Still life (vincitore del Leone d’Oro 2006) e ne Il tocco del peccato (2013). Cos’è la Cina oggi, chi siamo e che eredità ci hanno consegnato i nostri antenati?
A questo interrogativo risponde qui attraverso una rivisitazione straordinariamente originale del melò.
Non ci si lasci ingannare da un plot apparentemente banale che indicherò solo a grandi linee: Tao è corteggiata da due pretendenti, Liangzi e Zhang, uno povero e l’altro imprenditore in carriera, e alla fine si deciderà a sposare ovviamente quello ricco. Una scelta da cui Tao sembra trascinata, nessuna passione trapela nei suoi sentimenti, questo anche grazie all’interpretazione della bravissima Zhao Tao (moglie del regista) che ben sa misurarsi in un’espressività sottomessa alla necessità. Seguiamo i due che si sposeranno mentre le sorti dell’amante ferito, trasferitosi in un’altra cittadina per trovare un impiego in una miniera di carbone, verranno ben presto abbandonate.
È a questo punto che appare il titolo del film, e subito dopo l’inquadratura si sposta sulla nascita del figlio di Tao e Zhang che viene paradossalmente chiamato dal padre Dollar. È chiaro che l’intenzione del regista non sia raccontare solo una storia di relazioni, separazioni e incomprensioni, bensì mostrare attraverso una filiazione simbolica cosa la Cina è stata in grado di trasmettere da una generazione all’altra, quale sia l’eredità di cui ora è portatrice e di conseguenza la sua identità.
Le immagini che si susseguono compongono mano a mano una storia fatta di salti temporali ed ellissi narrative che ne fanno il suo punto di forza. Non ha importanza che fine abbia fatto Liangzi o Tao o Zhang che ha divorziato da sua moglie e, diventato un ricco imprenditore, si è trasferito in Australia con il figlio. Quello che rimane al centro del racconto è la mancata relazione tra i personaggi che, nelle inquadrature, è espressa da campi e controcampi in cui spesso non si è contemporanei con gli interlocutori, né ci si incontra nello sguardo dell’altro. Sguardo necessario per costruire l’identità. L’immagine di noi stessi non è mai quella dello specchio, ma quella che ci rimanda l’appartenenza sociale, le persone con cui ci relazioniamo. Qui nessun personaggio sembra mai incontrarsi con se stesso, con la propria storia e con il proprio dolore, e tanto meno con gli altri. Ognuno sembra un’increspatura del mare che non a caso appare in una delle immagini di gruppo nelle sembianze di una folla che si muove ondivaga da una parte all’altra. Ed è proprio Dollar, ormai ventenne agiato che vive a Melbourne, a rivelare alla sua amante il significato di quel nome primigenio. Onda. Tao significa onda. Ecco, la Cina viene rappresentata come un flusso d’acqua in cui le storie individuali non esistono più, sono solo increspature di un mare che si inarcano e scompaiono. È come se Dollar alias la nuova Cina avesse rinunciato a ogni pensiero sull’origine in nome di uno slancio mercantile e cosmopolita, sostituitosi a quello dell’ideologia comunista. Quello del denaro. E da questo si sia lasciato trasportare, onda tra le onde in un flusso e riflusso continuo che non si ferma, non si appaga, non tesaurizza tracce e ricordi di memoria collettiva.
Dollar non ha più alcuna identità, non sa parlare la lingua madre, parla in inglese con il padre depresso e ormai in bancarotta, attraverso un’interprete. Non sa chi è, dice di essere nato in provetta. L’immagine, la prima che avrebbe dovuto aiutarlo nel definire la sua identità attraverso lo sguardo della madre, non c’è mai stata: Tao a sette anni lo ha affidato al padre perché avrebbe potuto offrirgli maggiori possibilità. Quali? L’unica eredità che questi ha compiuto nei suoi confronti è stata il travaso di geni e di beni senza alcun lascito di memoria. Ora che il senso sfugge, che è andato in frantumi, non può riconoscersi in nulla. Così, nauseato da un godimento fatto di cose di cui ignora l’origine, decide di lasciare tutto. Per andare dove? Neanche lui lo sa. L’interprete di Dollar, con la quale intraprende una relazione, un’ibrida anche lei, né amante né madre, gli suggerisce di tornare alle sue origini. Da Tao. La madre-Cina. E a questo punto una nuova ellissi porta l’obiettivo sulla madre.
Eccoci nel 2025. La ritroviamo lì, a Fenyang, in abiti dimessi. Solitaria e ingrigita, nella bella casa che l’ex marito le aveva lasciato, emblema di come il niente abiti il fondo segreto di ogni oggetto. Prepara ravioli, il nutrimento che cucinava a suo tempo, per qualcuno che non c’è. La seguiamo mentre si infila il modesto giacchetto e con il suo esemplare e indecifrabile sorriso esce con il cane. Va a camminare là, dove aveva passato il capodanno del 1999 con Liangzi e Zhang. In un paesaggio brullo in cui scorre un fiume osteggiato nel suo lento e inesorabile scorrere da qualcosa che sembra essere sale, o neve, o scorie di inquinamento. Ancora un indefinito. E sotto la neve che comincia a cadere inizia a ballare. Da sola. Questa volta le note di Go west! sono nella sua testa e nelle nostre orecchie. Sul suo volto la stessa impassibile espressione che lascia a noi spettatori la responsabilità di dare una risposta. Sempre che se ne abbia una.
Il film e la recensione toccano temi importanti e si pongono domande direi etiche fondamentali dentro una società liquida che, in qualche modo, sembra appunto aver liquidato le contraddizioni (anche quella madre, e in Cina non così fuori moda e fuori tempo, come tradizione/modernità) dentro onde utilitaristiche di breve respiro. Breve respiro uguale breve memoria uguale non avere gli strumenti per darsi una autobiografia con cui poter fare delle scelte responsabili? Breve digressione psicologica: se non si sa chi si è si tenderà a non avere comportamenti autentici ma imitativi, cioè conformisti, o oppositivi a prescindere, cioè distruttivi e autodistruttivi, e in entrambi i casi si tenderà comunque all’auto-inganno? In effetti un film che stimola introspezione e semina anche dubbi identitari… Penso che, in primis, nel film ci siano gli aspetti etici, genealogici, psicologici e politici individuati da Stefania, inoltre, la mia sensibilità diciamo abbastanza influenzata dal post-moderno, mi ha spinto a vedere anche questo: in molte immagini diciamo “aperte” ci ho visto anche una grande possibilità di trasformazione, dei luoghi e delle persone, e dunque una grande vitalità. Molte scene sono piani sequenza composti in modo marcatamente simbolico: a elementi del vecchio e del nuovo paesaggio urbano e sociale viene associato l’elemento umano, che attraversa il paesaggio, così che il piano sequenza (che ha inscritto nella sua grammatica -ontologicamente, diceva Bazin- il mostrare la durata, durata che contiene sempre in sé l’elemento dell’imprevedibilità) finisce per dare allo spettatore la percezione del tempo che muta e quindi anche la percezione che tutto (compreso l’uomo che attraversa il paesaggio) si stia trasformando, dunque che vada in avanti. Attraversare la confusione presente (non quindi difendersi come fa il padre di Dollar, nel film connotato in modo giustamente macchiettistico, ma come fa il ragazzo che finalmente riesce a instaurare una relazione differente e autentica, e non a caso “ibrida”, vero), ritrovare la memoria (nell’ordine anche simbolico della madre…) e dunque anche riuscire a darsi una identità narrativa con cui fare scelte sensate, ricostruire il futuro (l’immagine finale, piena di vita e bellissima, non è ironica come la prima, di conseguenza il movimento circolare secondo me è solo apparente… non c’è insomma consolazione metafisica, diciamo così, ma storia/storie e responsabilità -assunta e vissuta, però, anche con gioia e desiderio -ché il cinema non è in fondo sempre anche questo?
Per quanto riguarda le tue prime osservazioni, può darsi che sia come dici tu Alessia. Sulla vitalità presente nel film mi sentirei di rispondere che non ne ho visto il benché minimo respiro. A meno che non ci si riferisca a quella vitalità mutuata dalla natura, senza coscienza. Come in altri film di Jia Zhang Ke c’è piuttosto smarrimento, grigiore e insensatezza. Siamo sicuri che Dollar ha instaurato una relazione con quella donna e non vi si sia invece aggrappato invocandone l’aiuto? L’immagine finale, poi mi è sembrata più che vitale autistica…
non sono d’accordo, per me molte immagini sono ambigue e dunque contengono anche vitalità, un po’ come il grigio che ha in sé sia il nero che il bianco. La vitalità non penso sia data dalla natura, no ci sono paesaggi panici o cose del genere, ma dalla trasformazione -la crisi può essere anche un’occasione per mettersi in gioco più autenticamente