Forse è il personaggio maggiormente riuscito, quello di Pierfrancesco Favino. Ha un volto che è una maschera. Ha una serie di espressioni e battute e modi di muoversi che lo avvicinano al fumetto. Punta gli occhi in chi ha di fronte come se fosse in un fotoromanzo noir. C’è un qualcosa in quella serie contingentata di frasi in dialetto romano e atteggiamenti del corpo che riducono il reale in qualcosa di fantastico o più semplicemente di genere. Favino è “Il Cobra”, un soprannome che indica l’area di confine in cui si muove, un territorio situato tra l’ordine e il caos, tra l’umano e l’animale.
Questa sua interpretazione per certi versi stereotipata, per altri essenziale (resa con pochi tratti) e ancora di più ripetitiva – quasi che le relazioni siano delle “frasi fatte” e la vita un copione di ferro scritto altrove – dà l’idea di un personaggio sociopatico. Lui è il frutto maledetto del trionfo della parcellizzazione della vita sociale, lui nuota nella mucillagine sociale. Lui e i suoi compagni del reparto Celere sono profondamente soli, tant’è che considerano il loro lavoro un destino e per recuperare una briciola di calore e affetto finiscono per considerare chi porta il manganello e indossa un casco un fratello. Sono alla ricerca di una unità minima di riconoscimento che non è la famiglia di sangue ma una ulteriore legata a qualcosa di eccezionale, quel vivere da “figli di puttana” che rende unici i celerini di Acab.
Li sentiamo vicini in questa loro ricerca, scatta con lo spettatore una complicità, anche noi vorremmo essere così, però non possiamo dircelo, ci basta guardare. Il piacere di spiare qualcosa di non conforme alla norma o quanto meno di poterlo vedere messo in forma, cioè sottratto al fluire del tempo, scatta inoltre con la rappresentazione di questo mondo maschile. Dal poter vedere quegli uomini sotto la doccia che si scambiano battute e pacche sulle spalle, che invocano legami e amicizie indissolubili, in cui ognuno può contare sull’altro sempre. C’è una virilità o una presunta virilità dei comportamenti che attrae e al tempo stesso sconvolge (si pensi al ruolo delle due uniche donne del film: marginalizzate, inascoltate, picchiate), c’è la necessità di sapere che “l’uguale a me” ci sarà al momento del bisogno, che lo specchio dell’identico non sarà infranto dall’estraneo, dal perturbante, da quanto ritengo straniero ai miei usi e costumi.
Favino nei panni de Il Cobra potrebbe avere una vita lunga sugli schermi cinematografici o quelli televisivi. Da celerino potrebbe scoprirsi serial killer o al contrario diventare consapevole delle ragioni del suo mestiere e della violenza attraverso un percorso terapeutico e a quel punto convertirsi ad altra causa, potrebbe intraprendere un’altra missione, senza escludere una sua espulsione dalla Polizia di Stato e nemmeno che una volta fuoriuscito intraprenda la strada del giustiziere dei torti subiti dai più deboli. Insomma lui e i suoi compagni sono un embrione seriale, un potenziale di molte storie, tutte ancora da svilupparsi e lo è in modo particolare Il Cobra. Più che un film, sembra un episodio pilota. Del resto il regista, Stefano Sollima, è autore della serie Romanzo criminale.
Il primo limite di Acab sta proprio in queste sue potenzialità che restano aperte, nessuna è portata sino in fondo. Se a volte s’invoca un di più di realtà, in questo caso c’è da invocare un di più di finzione, magari mettendo completamente da parte i fatti di cronaca che sono la traccia di fondo della sceneggiatura. La consueta scritta nei titoli di coda, posta in questa occasione proprio alla fine, come se inconsapevolmente la si fosse voluta nascondere, e dove si legge che “i riferimenti a fatti o persone è solamente casuale”, appare ridicola. Lo sfondo della narrazione è esplicito. È il periodo che ha portato all’elezione di Alemanno a sindaco di Roma, con l’uso strumentale e politico del tema della sicurezza sociale e di alcuni fatti di cronaca (l’omicidio Reggiani, assalti con mazze a extracomunitari, sgombri di campi Rom, gli sfratti comunali, l’uccisone del tifoso della Lazio Gabriele Sandri, del poliziotto Raciti durante gli scontri del dopo partita Palermo – Catania). In quegli avvenimenti, tra l’altro, giocò un ruolo non piccolo la comunicazione mediatica-giornalistica, completamente dimenticata nel film. È facile replicare a queste mie critiche dicendo che Acab voleva essere la storia di un reparto della Celere.
Tuttavia quegli episodi di cronaca appaiono come dei lacerti di realtà oramai privi di vita, già datati, con scarsa risonanza emotiva per lo spettatore o quanto meno inerti rispetto al presente, evocano un passato non molto lontano che però non ci tocca più, lo possiamo osservare come se non ci riguardasse. Le paure e le angosce di chi vive nella Capitale restano, ma sembrano al momento spostate altrove. Secondo le pagine dei giornali i pericoli sono da rintracciarsi negli scontri a fuoco tra bande di malavitosi o tra rappresentanti dei clan della criminalità organizzata in lotta per gli appalti, il riciclaggio di denaro sporco e il controllo del traffico degli stupefacenti.
Il secondo difetto di Acab è conseguenza del primo: l’incapacità di perseguire la finzione con radicalità, togliendo di torno l’esigenza di far tornare i conti, di dover aderire ad uno schema normativo della narrazione, riduce drasticamente il bagaglio teorico del film che diventa povero, incapace di accendere la lampada del proiettore della propria testa. Ugualmente le immagini degli sgombri degli appartamenti, del manganello sulla testa dei lavoratori in sciopero, delle “deportazioni” di stranieri sono forti, colpiscono perché mai viste sugli schermi italiani di questi anni ma è materiale che non lievita. Resta lì dove lo abbiamo visto, di lato, dopotutto Acab non è documentario. Acab non è un film storico. Acab non è un film di denuncia. Acab non ha intenzioni politiche (anche se una ventata di antipolitica, con una strizzatina d’occhio a sinistra, non ce la risparmia – mi riferisco al politico berlusconiano colpito da un pugno dal giovane celerino in cerca di un aiuto per liberare la casa assegnata dal comune alla madre e occupata da un extracomunitario). Acab non è solo un film di genere. Acab non vuole solo intrattenere. Acab non è…
Che cos’è Acab? La difficoltà di definirlo è provocatoria, serve a mettere in evidenza come i materiali incandescenti tra le mani del regista faticano a trovare una logica che non sia quella di tirare in più direzioni le sorti del film e dei suoi protagonisti. Tant’è che il punto di vista interno al gruppo della Celere (l’unico scelto dal regista), il quale esprime un’ideologia fascista, condita in salsa coatta, con regressione localistica da timore globale, e quindi con una natura potenzialmente eversiva, si affloscia in modo ambiguo. Infatti, se da un parte il giovane celerino denuncia le azioni fuori della legalità dei compagni, dirigendo la narrazione sui binari del contenimento e della norma, dall’altra l’immagine
finale ci consegna il gruppo di poliziotti protagonisti che trovano l’unica ragione di esistere “ora e sempre” sulla strada, dove “la vita è guerra”.
In genere tendo a diffidare dei pezzi con dentro “perturbante” tuttavia sono d’accordo con te. Troppa poca finzione e troppi ammiccamenti alla realtà. Che essendo troppo vicino a noi, non e’ ancora “romanzo criminale”. Film ben fatto ma NN riuscito e persino troppo romanocentrico. Ciao