Perchè sì |
Perchè no |
---|---|
Ospitiamo la recensione di Luca Pacilio pubblicata sulla rivista www.spietati.it
A single man è un film sorprendente e molto, molto coraggioso. E’ un film sorprendente perché rappresenta il debutto nel cinema di Tom Ford – geniale stilista che, prima di esordire col proprio marchio, rilanciò nel mondo casa Gucci – con un lavoro molto accurato e cosciente. Coraggioso, perché Ford lo trae da una perla lucente della produzione di Christopher Isherwood, una delle massime penne in lingua inglese del secolo scorso: un romanzo non solo di magnifica scrittura (in Italia, Un uomo solo), ma tutto imperniato sul percorso interiore del suo protagonista che si snoda contemporaneamente a un percorso esteriore che acquista rilevanza intrecciato col primo, col carico di riflessioni che emerge dal pensiero del protagonista, un romanzo straordinariamente difficile da portare sullo schermo e che Ford, anche sceneggiatore, non ha alcuna remora a rileggere, modificare, adattare alla sua idea di film. A stravolgerne il senso, quando necessario, allineando alla chiarezza di idee sul fronte visivo, una determinazione sul fronte della concezione altrettanto stupefacente.
A questa complessa materia Ford dona una maturità di sguardo che lascia stupefatti: si noti la scena della vestizione mattutina, il modo in cui il regista cristallizza, in macro, singoli dettagli perfetti; si apprezzino le variazioni di registro visivo, quei folgoranti cambi di colore che dicono dell’umore del protagonista, di un mondo esterno percepito come freddo e desaturato; i ralenti grotteschi sulle persone che abitano nel vicinato e che significano l’annoiata contemplazione di una vita circostante registrata come vuota di senso e incolore; l’esuberante invenzione scenografica, la fantasiosa concezione degli interni, le porte usate come un sipario che si chiude sui personaggi. Ford trasporta il suo sguardo e il suo immaginario sullo schermo, applica i canoni figurativi che conosce, usa gli attori come modelli, li veste per la sua messinscena (accessori compresi: si guardino occhiali, orecchini, cravatte: tutto il cast, comparse comprese, non ha un tono fuori posto), mettendoli letteralmente in posa, li divinizza (la Moore diventa una sorta di sacerdotessa-icona), fa del romanzo di partenza una base sulla quale erigere il proprio mondo, la propria idea di bellezza: i dettagli del corpo del tennista (mentre si parla della Russia – siamo nella fase cruciale della crisi Cuba-Stati Uniti –) si impongono come frammenti di immagini mentali, sono ombre di un desiderio a lungo narcotizzato; un flashback in bianco e nero che sembra uscito da un servizio fotografico di Herb Ritts ci parla di Jim come di un passato mitizzato col quale si fatica a chiudere; l’incontro casuale col ragazzo spagnolo (che ha l’ apparenza, il portamento e l’atteggiamento di un modello, che si muove consapevole della macchina da presa che lo riprende) è uno spot sulla bellezza, in cui la sessualità non c’entra, c’entra la rinnovata coscienza del professore di poter godere della visione di qualcosa che trova bello – per questo episodio il regista non ha alcun timore a sfoderare uno spudorato cielo rosa -. |
di Giustino Finizio
Dall’omonimo romanzo di Christopher Isherwood, Tom Ford mette in scena la giornata particolare di George Falconer, un professore universitario inglese di 52 anni che fatica a trovare un senso alla propria vita dopo la morte del compagno Jim (Matthew Goode). George vive nei ricordi della sua relazione e ha uno sguardo ostruito verso il futuro. Un uomo solo perché single ma anche appartato per via della sua omosessualità vissuta nei primi anni ’60 e il titolo originale rende adeguatamente questo duplice stato. Nell’arco di una giornata, una serie di incontri lo aiuteranno a capire cosa fare della sua vita. Lasciamo da parte per un attimo chi sia Tom Ford e da dove venga. Dopo la visione di A Single Man si avverte una certa scissione, una sostanziale separazione tra aspetto formale e tratto narrativo, tra curatissimi dettagli nella messa in scena e necessari rimandi con la storia raccontata. O meglio Ford, con cura certosina, affida ai cambiamenti della fotografia e alle varie sfumature della saturazione cromatica il contrappunto con gli stati d’animo del protagonista, sottolineandone così il ricordo, la melanconia, il dolore, la fiducia, la speranza che progressivamente si avvicendano nella giornata del professor George. Pervade eccessivamente il suo lavoro con inquadrature e sequenze disegnate con maniacale esattezza. Perfezione e scrupolo che si propagano ben di là dalla macchina da presa: con arredi, scenografie, abiti ed accessori impeccabili nelle loro fattezze e accostamenti. E i personaggi sembrano gridare ossigeno sommersi come sono da un mare filmico che li sovrasta. Ford viene dalla moda e questo balza subito agli occhi, ogni regista porta inevitabilmente con sé ciò che l’ha formato e, si badi bene, questo non è, e non può essere, né una colpa né un punto a sfavore. Cosa che renderebbe la riflessione sul suo film un bieco e snobistico pregiudizio. Tanto cieco e gratuito poiché appare fin troppo evidente che Ford con la macchina da presa ci sa fare, sia per innumerevoli esperienze passate nel campo delle campagne pubblicitarie, sia perché si avverte nel suo film un citazionismo fatto di suggestioni quasi eteree; un amore nei confronti del cinema e dei tanti film e registi che deve aver venerato, ipotizziamo noi, con ripetute e quasi feticistiche visioni, uno su tutti: Wong Kar Way cui ruba anche il compositore Shigeru Umebayashi per il tema principale per sequenze al ralenty alla In The Mood For Love. Ma la grazia e la minuziosità registica non possono essere fini a se stesse, al contrario, quando serve, devono necessariamente essere funzionali alla storia che gli si snoda davanti, per filiazione o per netta contrapposizione. E questa sceneggiatura non giustifica nessuno dei due opposti. Forse Ford, alla sua prima opera, per affanno e ansia da performance, ha eccessivamente focalizzato composizione e complementi perdendo di vista l’opera come un tutto organico. Crediamo che un film non possa essere eccessivamente attraente e raffinato senza una qualche voluta imperfezione o crepa che ci permetta di infilare un dito per toccare il precipizio su cui l’esistenza a volte si affaccia. Se il bravo Colin Firth (Coppa Volpi a Venezia) rimanda adeguatamente la personalità british del protagonista nel suo essere misurato, la compagine di personaggi che si affacciano lungo la giornata di George sembrano realtà eccessivamente frammentate che schivano ogni tentativo di dare richiami omogenei e convincenti che delineino lo stato d’animo del protagonista e il sapore della sua giornata. Il giovane studente Kenny (Nicholas Hoult), alla ricerca e definizione della propria identità, è una figura blandamente emergente per diventare pretesto e causa di qualsiasi guizzo interno di George. Il marchettaro Carlos (Jon Kortajarena) è troppo bello, “troppo modello” per simboleggiare la bellezza che torna a farsi contemplare dal protagonista in uno sforzo proiettato verso il presente, a discapito di un passato che lo incatena a ciò che mai più sarà. Qualche fremito più vitale ce lo regala Julianne Moore nel ruolo dell’amica/vicina insoddisfatta e alcolizzata (ruolo non nuovo per l’attrice che non dovrebbe abusarne), ma la sua comparsa si vorrebbe più lunga per permetterci, con rimandi, di interpretare con maggior respiro il mondo interiore del suo amico protagonista. Tornerà Tom Ford alla regia, perché ne è capace, ma ci auguriamo torni con un film che sia più meritevole del termine eleganza, come molti hanno definito questo suo primo, se è vero che l’eleganza contempla anche misura ed equilibrio. |