Dietro una vita apparentemente tranquilla, quasi monotona nella sua routine quotidiana che fa sembrare ogni giorno speculare all’altro, cova il tarlo che rode la superficie patinata delle cose e svela impietosa la piaga virulenta di una ferita in corso già da tanto tempo, che aspettava semplicemente che qualcuno se ne accorgesse, escludendo quasi del tutto una possibilità di cura.

I Coen si sono posti come osservatori di vite ferite malate, contagiate dalla stupidità e dalla rabbia ottusa e irrazionale  a cominiciare dal loro esordio del 1985, dall’indicativo titolo di Blood Simple (Sangue Facile), dove gli esseri umani erano già abietti, meschini, egoisti e l’inganno e l’omicidio sembravano essere gli unici strumenti di interazione possibile.

Da quel punto in poi la contaminazione fondamentalmente tra due generi, il noir e la commedia grottesca, ha concesso a Joel e Ethan di creare un loro specifico, riconoscibile linguaggio dove la forma distorsiva e allucinata delle immagini del reale è al servizio di una concezione della società in altalena tra la dissacrazione grottesca e la desolazione esistenziale.

Le ultime due opere della coppia di cineasti di Minneapolis erano perfettamente complementari in questo senso, una sorta di dittico sul volto ora feroce ora idiota della violenza, incarnata barbaramente nell’espressione torva di Javier Bardem in Non è un paese per vecchi e svuotata di qualsiasi senso nella faccia da ebete di Brad Pitt in Burn After Reading, con la stessa iconografia divistica derisa, privata della sua funzione di punto di riferimento per uno spettatore senza più né aspettative né catarsi.

Anche quest’ultimo A Serious Man segue il filo conduttore di un’espressione che questa volta ha l’aria sbigottita e impotente dell’inedito Michael Stuhlbarg, in una performance attoriale in cui raramente il corpo e la faccia si erano concessi con tanta plasmabile generosità all’occhio della mdp. E il mondo su cui si apre lo sguardo di Larry Gopnik, questo il nome del protagonista, non può che spingere nella direzione opposta, alla ricerca di una realtà alternativa, immaginata o sognata, quando anche lo stesso sogno non si trasforma nell’incubo della normalità. Stavolta i Coen vanno ad osservare da vicino un orrore che conoscono in profondità, anzi potremmo dire che fa parte del loro DNA visto che Larry appartiene alla chiusa e rigida comunità ebraica del Mid-West degli anni Sessanta, ambiente dove gli stessi Coen sono cresciuti a contatto con l’altrettanto codificato e strutturato mondo universitario (i genitori erano entrambi docenti), esattamente come il loro annichilito anti-eroe, insegnante di fisica teorica, ovvero l’astratta esattezza della scienza a confronto con l’indeterminatezza e la precarietà dell’esistenza.

Considerando come quasi sempre il cinema più o meno autobiografico ha avuto l’inevitabile tendenza di subliminare i ricordi dell’infanzia o di alternare almeno all’umorismo acre e pungente un sentimento di affetto o di struggente malinconia (pensiamo a Radio Days di Woody Allen e ad Anni ’40 di John Boorman), lascia un senso di amara sconsolatezza la descrizione spietata e implacabilmente esatta dei personaggi che ruotano intorno a Larry e alla sua vita in disfacimento, a partire dall’assurda moglie che gli chiede il divorzio e  gli mette dentro casa il nuovo amante presentandolo come esempio di uomo retto (serious) contro la passività e l’inettitudine di Larry; i figli, che seguono stancamente i più logori clichés dei comportamenti adolescenziali, con il maschio intento solo a farsi canne ed ascoltare la musica rock e la femmina interessata unicamente a trovare il bagno libero per lavarsi i capelli e uscire la sera; e soprattutto i tre saggi rabbini a cui Larry fa delle domande sugli insensati fatti della vita e da cui riceverà delle risposte che non solo ne confermeranno l’insensatezza, ma accresceranno la vertigine, il punto di una situazione statica senza partenza e senza arrivo. Lo straniamento è provocato dal fatto che si percepisce che i Coen conoscono molto bene i vizi e le virtù dei piccoli individui che raccontano e forse proprio a causa di questa consapevolezza non lasciano loro nessuna soluzione logica o possibilità di riscattarsi, di trasformare lo sgomento di Larry in una reazione se non di riscatto almeno di orgoglio.

Non c’è più neanche la saggia poliziotta incinta di Fargo, quella che davanti ad omicidi, carneficine, macellamenti di corpi era in grado di portare tutto nella giusta prospettiva dicendo candidamente: “Tutto questo casino per un po’ di soldi?!”. Tutti si abbandonano al caso, alla fatalità, a cercare la soluzione al di fuori di sé, con la religione ebraica ridotta ad un terno al lotto in cui sperare di azzeccare la risposta più appropriata ai piccoli problemi personali invece che alle grandi questioni etiche.

Mentre  sono proprio i soldi, la gelosia, la rabbia, la frustrazione sessuale gli impulsi primari che spingono gli uomini ad agire, come l’enigmatica figura del fratello di Larry,  la cui solitudine in pericolante equilibrio tra genialità ed emarginazione sociale sembra non poter essere compresa e accettata dagli altri gretti ed egoisti componenti della famiglia Gopnik, prima di scoprire che ha elaborato un sofisticato sistema di calcolo delle probabilità per vincere al gioco delle carte…

L’America non è più un paese per vecchi ma non è stata neanche, non è e probabilmente non sarà mai quella terra di solidi valori e di speranze che l’idea stessa di sogno americano ha provato a vendere alle generazioni sopravvissute alla disillusione degli anni ’70. Basta guardare l’approccio che i Coen hanno verso il personaggio di Danny, il figlio alle soglie della pubertà che sta per essere iniziato alla comunità adulta attraverso il rito del Bar Mizhvah. La scena in cui, completamente fatto di marjuana, sale sull’altare della sinagoga e legge un passo della Torah dopo averlo imparato meccanicamente a memoria ascoltando un disco, ha una valenza più forte della pur incisiva dissacrazione di un momento fondamentale dell’essere ebreo; è una sequenza che fa crollare tutta l’apparenza del vivere comune, che afferma come la religione, la famiglia, lo stesso passaggio verso l’età adulta siano ridotti a delle convenzioni a cui bisogna partecipare per  avere in cambio una fetta di torta (avvelenata) o poter accedere al frutto proibito: in questo caso una radio transistor con cuffie  che offre la possibilità di ascoltare la grande stagione del rock, in particolare gli Jefferson Airplane.

Anche qui, però, basta stordirsi con il rumore senza ascoltare il signifi
cato profondo delle parole: “Quando scopri che la verità è solo un cumolo di bugie, e la gioia dentro di te muore….”

3 Replies to “A Serious Man – la disperata commedia umana degli impietosi Coen”

  1. molto interessante. ma secondo te la scena iniziale che relazione ha con tutto il resto? e lui, intendo il protagonista, non ha il colpevole limite di non vivere una vita passiva, prono agli eventi, in contrapposizione alla superlativa capacità di controllare numeri ed equazioni? e poi l’insensatezza del mondo, quell’essere in balia dell’indeterminato, non provoca paura e questa non è una delle accuse che in genere viene fatta a chi crede? Cioè di credere in Dio perché presi dal timore di vivere e quindi bisognosi di un agente esterno per controllare la propria esistenza? rispetto a questo punto, come la “pensano” i coen?

  2. Credo che la scena iniziale serva a contestualizzare il racconto nella cifra grottesca e parodossale per cui è vero tutto e il contrario di tutto,c‘è un relativismo esasprerato che porta ad interpretare i fatti,a dare loro uno spiegazione,anzi un senso a secondo del proprio tornacoto personale proprio perchè non esistono più valori assoluti profondamente compresi e condivsi,se non “formalmente”.
    Credo che Larry si (auto)illuda alla fine di aver fatto quadrare i conti della sua vita,quando in realtà la casualità che spesso abbiamo bisogno di chiamare Dio o destino per trovare un senso,dimostra il suo potere “assoluto”,incotrastabile.Ecco credo che che la ferocia e la diperazione dei coen si esprima nella descrizione dell’affanosa ricerca degli uomini di trovare spiegazioni e soluzioni avendo come prospettiva,come campo d’azione solo le loro piccole vite.Manca la consaspevolezza di essere parte di un “tutto”.

  3. il prologo iniziale, come anche l’epilogo mi risultano misteriosi a voler essere gentili.

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