di Armando Andria, Alessia Brandoni, Fabrizio Croce
Ci sono dei film che continuano a girare in testa e ad accendere e ad alimentare delle discussioni appassionanti perché magari vanno a toccare in profondità, nel bene e nel male, un modo di vedere e di sentire il cinema. Licorice Pizza, l’ultimo film di un regista da noi amato, approfondito e sviscerato come Paul Thomas Anderson, ci sembra appartenga a questa categoria. Abbiamo, quindi, sentito il bisogno di confrontarci rispetto alle corse di Alana e Gary, se aprissero alla possibilità di nuove direzioni o trasformazioni o se fossero solo il pretesto per la corsa su una giostra prima del riaccendersi delle luci in sala
(la cronologia dello scambio segue anche il ritmo del tempo in cui è accaduta. Tempo non lineare, a strati, un po’ come fanno i pensieri in una giornata vivace, che vanno e vengono come fossero nuvole).
Armando Andria: Che incredibile botta di vitalità Licorice Pizza!… Mi riferisco al concetto di vitalità come inteso da Pasolini nella citazione che abbiamo sottoposto a Capuano nella nostra intervista: cioè al discorso dell’aumento di vitalità che un’opera (libro, film, spettacolo) può determinare nello spettatore. L’ho sentito anche proprio fisicamente come un film energetico, entusiasmante… A prescindere anche dalla rappresentazione così vivida dell’innamoramento, che di per sé è trascinante, c’è ancora di più… È un film che restituisce la possibilità (le possibilità) della vita, o meglio la vita come possibilità… In un momento come questo in cui percepisco molto più spesso l’opposto, cioè l’angoscia, la vita come “nottata da far passare”… Ecco, forse “semplicemente” il film giusto al momento giusto (almeno per me).
Fabrizio Croce: Io provo un sentimento completamente diverso nei confronti di questo film che, pur con dei momenti che mi hanno realmente emozionato ( il lungo piano sequenza del primo incontro tra Alana e Gary e il campo/controcampo della loro telefonata muta), ho trovato nel complesso molto costruito e cerebrale; anche quello che è stato detto e scritto sulla spontaneità e la vitalità della coppia di protagonisti, mi è arrivato come un qualcosa di artefatto, astratto, quasi meccanico, a cui manca la forza e l’intensità di una pulsione o di una tensione davvero dirompente. E a dire il vero il personaggio di Gary che a 15 anni già aspira ad essere un piccolo imprenditore, più che un adolescente mi sembra un adulto travestito da adolescente che nel finale si mette la sua bella uniforme in giacca e cravatta; Alana, al contrario, dichiara di avere venticinque anni ma appare e si comporta come una ragazzina ora scocciata ora sognante. E dal mio punto di vista l’unica tenerezza che posso provare verso entrambi la riconosco nel loro essere un po’ patetici come in fondo lo siamo tutti sul palcoscenico della tragicommedia dell’esistenza, a prescindere dalla stagione della vita in cui ci troviamo, ma a questo punto trovo ambiguo lo sguardo di Anderson : beffardo o affettuoso?. Di pasoliniano poi non ci trovo proprio nulla, perché manca l’aspetto della (disperata) vitalità che li radica in un corpo, in una loro verità.
A.A.: Non ho detto che si tratta di un film “pasoliniano” eh, affatto, stavo solo riprendendo la categoria della vitalità come metro di valutazione di un’opera. I protagonisti girano in tondo, deragliano costantemente, ma con una linea che li tiene sempre uniti. Penso per esempio alla scena nel locale, quando Alana è con Sean Penn e Gary arriva, e Sean Penn sta tentando di sedurla e lei in fondo ci sta anche, ma quando vede Gary entrare, pur nella confusione del locale affollato, traccia una linea con lo sguardo che raggiunge precisamente lui e gli fa la linguaccia…
F.C.: Secondo me sono dei falsi movimenti, Il muoversi per il muoversi, con un non sense esplicitato proprio dalle scene in cui compaiono Sean Penn e Bradley Cooper, che interpretano, in chiave caricaturale e assurda, la parodia delle star losangeline egoiche e autoriferite: tutto ciò crea, almeno in me, un distanziamento ulteriore , un non interesse, un plus di vuoto avvitato su se stesso per cui non capisco cosa fanno e cosa dicono tutti i personaggi, e soprattutto non mi fa credere più neanche al rendez vous di Alana e Gary (la scena del camion senza benzina che va in retromarcia la trovo emblematica della mancanza di una direzione che però secondo me non è ispirata come lo può essere un deragliamento sorprendente, come dici tu, ma uno spostare intenzionalmente lo stallo di quella situazione sull’ennesimo falso movimento, procedendo con uno schema reiterato e studiato nella sua eccentricità, che io avverto distante dall’accogliere la possibile imprevedibilità della routine quotidiana ).
F.C.: Poi quel pre-finale quando l’amante del politico gay represso si confida con Alana, dopo la cena “a tre” al ristorante per eludere i sospetti dei paparazzi, l’ho trovato imbarazzante, un espediente narrativo per giustificare la disillusione di Alana di fronte al mondo degli adulti e farla correre tra le braccia di Gary.
Alessia Brandoni : Mi sembra un film che abbia come sua poetica e come prospettiva il movimento, il fuori, l’incontro, il desiderio. Il Fuori come spazio complesso, a più strati e livelli, e come luogo dove incontrare l’avventura e l’impensato (ancor prima il fuori come ‘forma’ che rende possibile la relazione con l’altro). Tutti camminano e corrono per incontrarsi ma prima ancora per esprimere l’energia vitale del desiderio e del vivere. Nel Fuori accade una specie di disposizione coraggiosa, una esposizione a partire dai corpi (non mainstream né normati dei due protagonisti a fronte di camei famosi che invece si iscrivono dentro la pratica della citazione, pratica degna nell’arte, e della ridicolizzazione dello star system, tanto più se a paragone della spontaneità dei ragazzi). L’esterno Anderson lo costruisce con grande maestria e insieme con freschezza. Carrellate in cui ci sono tre o quattro piani simultanei in cui accadono cose diverse (accade lo scorrere delle vite e del tempo, della luce e del riverbero dei gesti). Soprattutto accade l’aperto, che sta anche a dire di un tentativo di girare come se fosse la prima volta. Come accade quando ci si innamora (ogni volta è la prima volta). I personaggi non girano a vuoto, nella mia visione, ma si muovono, tentano, vanno avanti, poi tornano indietro, poi cambiano direzione. Perché sono ragazzi e perché per Anderson le direzioni (la sua composizione va proprio nelle figure della musica… contrappunti, fughe, allegri, adagi, cori…) potrebbero continuare a destra, a sinistra, in basso o in alto dello schermo, in uno spazio aperto appunto. Ed è in questo fuori che accadono, possono accadere almeno, anche le ‘pratiche’ (il contrario dello spazio psicotico di Spencer -film sontuoso e penetrante-, dove però, seppure in situazioni molto diverse, entrambi sembrano riannodarsi nel contrapporre il movimento alle costrizioni; e potremmo chiamarli film con cui trascorrere notti insonni tentando di bucare l’assedio epocale…). Pratiche che si ripetono, come sempre accade nella realtà, perché è nella ripetizione che può accadere la differenza. Il camion che torna indietro è una metafora riuscita che fa pensare al bisogno, politico, di una decrescita (vanno tutti a piedi! In piena crisi petrolifera…), e poi anche alla necessità di tornare sui propri passi per far sì che possa formarsi una coscienza. Infine, sul piglio imprenditoriale del protagonista, penso stia nel racconto di formazione americano, come i quiz dei bambini intelligenti in Magnolia (futuri disadattati), o quelli dei bambini eccezionali in Salinger (potenziali suicidi), come l’avidità né Il petroliere, come l’ambizione di affermarsi in un paese dove il fallimento è lo stigma peggiore. E li affronta con il tono della fabula, coerente con i sogni che si hanno quando si è ragazzi (per niente patetico in questo senso, penso). In Licorice Pizza (catena californiana di negozi di vinile amata da Anderson negli anni ’70, gli stessi in cui è ambientato il film) il movimento poi, e paradossalmente, contiene in sé anche l’opposto della possibilità e apertura, ovvero la stabilità del più classico dei topoi del mélo –i due protagonisti si avvicinano e si allontanano, oscillando tra desiderio e dipendenza, personificando, ancora una volta, ‘il né con te né senza di te’. “Perché è così”, direbbe il nostro Antonio Capuano… Perché è anche così.
A.A.: Giustissima la correzione sui protagonisti: non girano a vuoto, sono gli adulti che girano a vuoto e riempiono il mondo di rumoroso non-senso mentre la storia (la crisi petrolifera) gli dovrebbe indicare una via diversa. Alana e Gary invece deragliano, ci provano, sbagliano, si rialzano, ci riprovano e sbagliano ancora.
F.C.: Io continuo a trovare all’interno di questo film una piattezza bidimensionale -perché proprio non riesco a capire chi sono questi “ragazzini” in contrapposizione poi a quali grandi? (che sono assenti e se ci sono o sono grotteschi o sono inermi)- e trovo che tutto si consuma dentro uno spazio che è calcolato e delimitato dal perimetro dello schermo cinematografico, anche se vuole offrire l’idea contraria di libertà, possibilità, apertura, come se possedesse l’audacia di essere spiazzante quando invece rimodula e conferma un bisogno di essere rassicurati e di riconoscerci in qualcosa che è tenero e intimo (e posso capire che si è sedotti da questo aspetto , in particolare durante questo lungo momento deprimente che stiamo vivendo…) attraverso loro due che corrono con quella strepitosa colonna sonora in sottofondo ( anche se amo visceralmente David Bowie , il connubio anni ’70/ Life on Mars è diventato un cliché ormai…) , spostando il senso e l’attenzione da tutto il resto, incluso l’atteggiamento imprenditoriale di Gary, in qualche maniera elemento costante di un racconto di formazione alla “American way of Life”, come dicevi tu. Ed è vero che è presente ed è messo a tema anche in tutti gli altri film di Anderson da te citati, ma in quei casi lo trovo analizzato in un’ottica veramente critica, complessa, appassionata, una lotta tra tensioni e pulsioni dove può aprirsi, anzi squarciarsi una possibilità e si può rompere quest’illusione idealizzante e affabulatoria del self made man o della self made woman di cui secondo me è pervaso in maniera un po’ irritante il sottotesto di Licorice Pizza: e la non conformità dei corpi di Alana Heim e Cooper Hoffman rispetto ai canoni classici degli attori emergenti hollywoodiani mi sembra anch’essa finalizzata ad un effetto, a voler codificare, paradossalmente, una contro tendenza con il rischio di normalizzarla e costruirci intorno un’unanimità.
A.B.: Sulla bidimensionalità e sul falso movimento dobbiamo intenderci. Perché porli del tutto in negativo? Dipende da come li si usa (penso a Bresson, per il primo, e a Wenders, che ci ha titolato anche un gran film, per il secondo). Il movimento per il movimento (come il parlare per il parlare di quasi tutta la nouvelle vague) perché sono per forza negativi? Possono avere una funzione mitopoietica, ontogenetica, performativa… insomma rigenerante. E il non avere a priori una meta ma piuttosto il seguire l’impulso a incamminarsi (il carattere di erranza dell’esistenza), può significare anche il tentare di attraversare qualcosa di ignoto, verso il futuro (che ha sempre un carattere etico).
F.C.: Si sono d’accordo rispetto a quello che dici sul senso e sull’essenza del movimento per il movimento , e non intendevo porre questo aspetto in un ottica negativa tout court , ma nel caso del film di Anderson trovo che ci sia un atteggiamo troppo controllante e frenato, in particolare nel linguaggio che vuole farsi, forzatamente e programmaticamente, esso stesso movimento, e che alla meraviglia dello stupire e dello stupirsi ci si arrivi per deduzione perché tutto rimane in ancorato ad una forma di scrittura molto pensata e ponderata. Infatti non credo che abbia molto in comune con la libertà espressiva, intellettuale ed emotiva del cinema della Nouvelle Vague, se non in una chiave citazionista e formalistica, come dire “alla maniera di” .Mi sembra inoltre che ci sia un mascheramento stavolta della parte controllata e mentale di PTA, un mettere in evidenza, o in superficie, una sorta di parata della giovinezza che ai miei occhi rimane tale e non mi da mai l’idea, come invece magari ha trasmesso a te, di poter mettere in atto un processo trasformativo o una palingenesi in Alana e Gary. Me li continuo a immaginare lì piatti sullo schermo, come due figurine da ritagliare e attaccare su un bellissimo e colorato album dei ricordi.Al contrario, film più espansi , ambiziosi e complessi come Il petroliere e The Master, nella loro costruzione esplicitamente geometrica, e nel conflitto scalpitante ed esasperato tra ragione e passione, credo che abbiano una maggiore chiarezza, autenticità, ispirazione.
A.B. : Capisco che tu abbia una lettura diversa su questo, certo. D’altronde l’ispirazione è forse quell’eccedenza di vitalità che esiste nella misura in cui ci sia un altro a riceverla… Ma volevo risponderti su quella che chiami lotta tra tensioni e pulsioni avverse che deve stare alla base di un personaggio complesso, così almeno mi è sembrato tu dicessi. Ecco penso che è vero, che ci si può muovere anche in un senso diverso e più composito, più contraddittorio e ‘verticale’, di quello mostrato da Anderson; cioè ci si può muovere perché spinti da errori, colpe, dubbi e demoni, (mi vengono in mente quasi tutti i personaggi di Dostoevskij…), in cui ciò che prima del resto viene agito è il ‘moto per il moto’, luogo in cui potersi ‘agitare’ tra espiazione e ricerca, moto lacerante e in parte ossessivo, in cui appunto il confine tra fuga e ricerca finisce per sfumare, il patire e il farsi carico delle responsabilità finiscono per confondersi, il desiderio e la nostalgia si alternano divenendo i poli umorali del soggetto errante, e dove ciò che alla fine emerge, prima ancora di una coscienza, è la stessa pulsione vitale del non poter non ‘andare’ (ne vale la stessa vita)… Moto forse più vicino a quello che dicevi tu. Ma penso anche che stiano in un’altra fase della vita, rispetto a quella attraversata e messa in scena dai due protagonisti di questo fulgido film.
Cari acrilbici coltissimi, vidi ieri in sala, quasi fuori tempo massimo. Che dirne? La coralità di Boogie Nights , ma senza piselli o altro in mostra. La demenzialteatralità tarantiniana a tratti, la levità di Wes, nella sognante pynchoniana atmosfera di piccoli gondry-ma-da-svegli, di corsa e danzanti. Nessun complotto è più vero del vero. E così, lo amore.