Può un musicista artisticamente cresciuto all’alba degli Anni Sessanta divenire l’icona del vuoto esistenziale del nostro presente? La risposta è affermativa, se pensiamo al Llewin Davis dei fratelli Coen e al suo stanco vagare per le strade del Greenwich Village alla ricerca di chi sia in grado di riconoscerlo.Perché Inside Llewin Davis non è soltanto la storia un chitarrista folk che non riesce ad affermarsi, quanto la vicenda di un individuo afflitto da anaffettività e individualismo, privo di legami emozionali e quasi del tutto incapace di esprimere sentimenti. Un uomo che sembra vivere né “con” né “per” gli altri, ma solo in funzione del suo successo personale, di una solida affermazione della propria dimensione artistica, e di quella sospirata notorietà esclusivamente attraverso la quale pare possa percepire il senso della propria esistenza.
Lontano dall’elevarci al ruolo di moralizzatori, è così peregrino comparare tale figura a quella dell’uomo contemporaneo? Non è forse l’apparenza camuffata in sostanza ad essere divenuta oggi la base fondamentale per costruirsi un modus vivendi appagante?
Durante un viaggio che da Chicago lo riporta a New York, Davis incrocia il bivio che lo condurrebbe ad Akron, città in cui vive il figlio che egli non ha mai conosciuto e del quale soltanto da poco ha scoperto l’esistenza. Esita, è incerto su dove dirigersi, poi, alla fine, sceglie di proseguire lungo la strada conosciuta. Perché ogni deviazione rispetto al percorso che Llewin ha disegnato per la propria vita, può rappresentare un pericolo, una distrazione passionale da cui proteggersi ad ogni costo. Non è, con ogni probabilità, la fuga dalle emozioni l’arma di difesa più usata dall’uomo d’oggi?
A Davis non sembrano interessare le persone in quanto tali, ma solo in virtù di ciò che possano ogni volta offrirgli: un divano su cui dormire, un’audizione da ottenere, una canzone da incidere in cambio di denaro contante, un locale dove esibirsi. Quindi, andremmo così lontano dalla verità nell’individuare la dimensione delle odierne relazioni umane non più nella ricerca di uno scambio autentico ma piuttosto in una concreta e reciproca analisi di opportunità? L’unica relazione significativa che Davis sembra riuscire ad instaurare è quella con un gatto rosso che lo accompagna per le vie della Grande Mela e perfino durante il suo “pellegrinaggio” verso Chicago; ma anche questo legame è fittizio, perché il felino tende a scomparire e a riapparire ad intermittenza, visto che Llewin o se lo lascia scappare dalla finestra, o lo abbandona, o addirittura lo scambia per un altro gatto. La metafora qui appare chiara nel rappresentare l’incapacità di Davis di mantenere un rapporto d’equilibrio col mondo delle emozioni. D’altra parte, tale precarietà non è il leitmotiv anche del nostro microcosmo degli affetti?
Con Llewin Davis i fratelli Coen creano un archetipo dell’uomo dei nostri tempi, incapace com’è di provare e suscitare empatia. Lo fanno sì con l’uso preponderante di una musica che a tratti incanta e sconvolge, ma anche col distacco intellettuale di sempre e attraverso le loro tipiche suggestioni surreali, creando così una distanza affettiva tra lo spettatore e il personaggio che non consente l’immedesimazione, bensì la sola riflessione. Hanno tuttavia il merito, a parere di chi vi scrive, di spingere tale riflessione fino alla sua compiutezza; se infatti ci domandassimo quale sia la ragione primaria dell’incomunicabilità del vivere di Davis, se essa sia da ricercarsi all’interno o al di fuori di lui, una risposta ci viene suggerita dagli stessi autori nella scena forse più intensa del film.
Come si accennava, Llewin intraprende un viaggio fino a Chicago. Lo fa per un’audizione davanti a Bud Grossman, noto (e realmente esistito) talent-scout musicale di quell’epoca. Di fronte allo sguardo penetrante dell’impresario, Davis espone se stesso per la prima e unica volta del film, suonando una struggente ballata, The Death of Queen Jane, che racconta del doloroso (e alla fine tragico) parto della regina d’Inghilterra.
Del brano spiccano le due strofe che riprendono il dialogo tra il Re e la Regina:
“Re Enrico faresti una cosa per me? Che è aprire il mio fianco destro e trovare il mio bambino. Trovare il mio bambino” .“Oh no” esclamò il re Enrico “Questa è una cosa che non farò mai. Se perdo il fiore d’Inghilterra perderò l’intero ramo. L’intero ramo”
Ora, se si provasse a pensare a Davis come la regina Jane e al bambino dentro di lei come l’emozione a cui lui non riesce a dare sfogo, ecco che, al termine dell’esecuzione, la sentenza pronunciata da Grossman immaginato nei panni di Re Enrico, o, in un respiro ancora più umanistico, dell’Uomo Contemporaneo, risulterebbe terrificante, emblematica e quanto mai speculare:
“ Con questa roba non si fanno soldi”.
Mi colpisce però che nel portare avanti questa tesi (a mio avviso ingenerosa) di L. Davis come personaggio anaffettivo e individualista, si manchi di ricordare il fantasma dell’amico scomparso. Questi è – narrativamente – la causa (almeno parziale) dell’incapacità di L.D. a legarsi; e rappresenta comunque – simbolicamente – la sua condanna alla solitudine: nella scena qui citata, quella dell’audizione, l’impresario dice a L.D.: “Eri in un duo? Fareste bene a tornare insieme”. E lui: “Ha ragione”. Una solitudine quindi dolorosa (che personalmente ho sentito molto vicina, forse come mai nel cinema dei Coen), che viene anche da un implicito (ma in realtà evidentissimo) senso di colpa per il suicidio dell’amico: una condanna, non già una scelta.
Secondo me 🙂