Piazza della Repubblica esterno notte. Pioggia. Poche macchine girano intorno alla Piazza. Due donne, more, appena uscite dal cinema sotto i portici attraversano la piazza a passo svelto per arrivare al centro. Fanno cenno a un taxi di fermarsi, raro trovarlo libero in una notte d’inverno e per di più piovosa. La più alta e procace delle due sale sul taxi, l’altra più piccoletta saluta l’amica e rimane qualche secondo al bordo della fontana, la tentazione di sedersi e godersi quelle luci riflesse sull’acqua, sull’acciottolato umido è forte… Lo spazio s’allarga, la piazza sembra più grande che vista da sotto il porticato.
“Effermate” urla una voce in romano, diremmo romanaccio noi non locali, nel tentativo di fermare un taxi. Sul bordo della fontana, infreddolita una donna dal vestito da sera, luccicante, i capelli di un improbabile biondo, schiariti per l’occasione (ha dimenticato le sopracciglia rimaste nerissime). “Ma questa non è la fontana di Trevi” urla a un ubriaco turista americano appena sceso da un macchinone.
Chissà di che colore è il vestito sotto il vistoso pellicciotto: bianco, nero? O forse di un vivido rosso.. E’ notte, le luci sono chiare, ma tutto attorno è scuro, la città è in bianco e nero, come la signora della fontana… Dopo vari goffi tentativi riesce a fermare un taxi e se ne va a peregrinare per le vie del centro in cerca degli amici che l’hanno “accannata” perché sarebbe stata la tredicesima della serata ed essere 13 a tavola si sa porta male. Anna M. incontra un amico storico, comparsa come lei a cinecittà (dopotutto siamo nella città del Cinema, dei sogni possibili o impossibili), compagno d’avventure che in quella notte cerca di arrontondare facendo da comprimario a un borseggiatore di lusso. La strana coppia si libera presto della donna. La città è in bianco e nero, negli anni sessanta il mondo è in sfumature di grigio (come immaginare a colori la Roma di quegli anni mitici per il nostro cinema?) o decolorata vintange ma forse è il colore della fantasia del passato.
Anna M. riprende a peregrinare per la città, vuole assolutamente divertirsi: dal vetro di un locale vede un giovane dal viso interessante, malinconico, sta suonando la chitarra… Entra nel locale fumoso. La voce è graffiante, profonda: sta cantando una ballata folk che parla di morte… E’ triste la canzone ma ne rimane incantata… Molti giovani lo ascoltano in silenzio, ma lei vede solo il suo viso, stretta, concentrata come in un primissimo piano. Lui è incuriosito da quella tipa che parla a voce alta mentre tutti sussurrano, applaude in modo sfacciato e ha quella strana pelliccia così fuori moda. Nessuno al Village la indosserebbe mai. Vorrebbe conoscerla, l’attira quella sua bellezza particolare, la risata sguaiata e contagiosa, ma il suo pensiero va a Jean che tutti vorrebbero scopare e che forse è incinta di lui e all’altra ragazza che un paio d’anni prima ha messo al mondo suo figlio e lui non lo sapeva fino a poche ore prima (ha ragione Jean quando dice che dovrebbe indossare un doppio preservativo). Jean sboccata, attraente, che fa la gatta morta dal palco insieme al suo Jim. Davis vorrebbe avvicinarsi a quella bionda dalle sopracciglia nere, offrirle da bere ma fuori lo aspetta un tipo vestito da cowboy che lo picchia, apparentemente senza un motivo… Sarà colpa dell’omone col macchinone con cui doveva dividere le spese per andare a Chicago? O del suo giovane valletto/autista/infermiere? O del gatto, quel gatto che vuole sempre scappare ma che lui deve assolutamente riportare al professore… Il professore è così gentile: lo ospita in una intera cameretta tutta per lui, anche per più notti.
Si sarebbero piaciuti e compresi Anna M. e Davis. Lei una vita da comparsa in cerca di fortuna, di arrivare a fine mese. Lui cantante di talento, ma senza successo, senza una casa (in giro da un divano all’altro, da una casa di un amico all’altra). La sua vita procede in tondo come le ballate che compone: lenta, malinconica e ironica. Davis gira attorno alla vita, senza andare a fondo, senza farsi prendere da amori, dolori… eccetto quel gatto rosso: dove sarà andato? Aveva preso anche la metro con il gatto del suo ospite sottobraccio: “Cosa guarda il tuo gatto” le chiede Anna M. E il gatto guarda fuori, vede scorrere le fermate della metro, curioso. Tutti scendono dal vagone, anche il ragazzo con il gatto e la chitarra, ma Anna M. non si accorge che è il capolinea ed è pure l’ultima corsa e si ritrova così al deposito con lo strano guidatore che non sembra completamente sveglio, ma è un bravo cristiano e le fa dare un passaggio da un collega.
Anna M. attraversa la città in moto e surgelata davanti al maestoso salone delle fontane improvvisa un esilarante striptease di fogli di giornali con cui si spoglia della corazza che avrebbe dovuta difenderla dal freddo.
Ma è’ una notte di febbario anno 2014 ed è quasi mezzanotte e sta per passare l’ultimo autobus per tornare a casa. Bisogna rimandare Anna dal suo amico Totò, domani li aspetta l’ennesimo Peplum e lei deve studiare bene la battuta, prepararsi al “miracolo”. Davis deve rimanere nel vicolo dove l’attende il cowboy.
Complimenti! brava!brava una recensione fuori dal coro, originale e priva di quegli orpelli intellettualistici finalizzati allo sfoggio della propria cultura cinematografica. Una recensione che è una poesia: spinge a vedere il film e nel contempo ti lascia dentro l’emozione di una visione di un personaggio tenero,per le strade umide della città eterna. Brava, davvero! 🙂
la recensione di chiara è bellissima, perfettamente immersa dentro il molto attuale crocevia “cinema di finzione/documentario”, come anche in quello gemello “letteratura di finzione/non fiction”. solo una cosa volevo dire a Mari: sai, noi nella rivista ci incoraggiamo a vicenda, sia quando scriviamo un approfondimento su qualcosa che ci è costato studio, tempo e pensiero (quasi sempre peraltro “affettivo”), sia quando troviamo il coraggio e anche la bravura, come qui, di sperimentare qualcosa di nuovo (e profondo e poetico). la distinzione che poni, in un contesto come questo (di persone adulte, appassionate e soprattutto oneste), almeno per me non ha alcun senso. ciò che conta, credo, è solo la sincerità e la curiosità (di chi scrive e di chi legge).
Ringrazio Alessia per darmi lo spunto di precisare ed integrare il mio commento: la distinzione era riferita ad altre recensioni (in altre sedi) sul medesimo (e specifico) film; i complimenti, oltre che a Chiara, si intendono estesi alla Rivista ed al lavoro magistrale che ognuno di voi apporta. Vi ho “scoperto per caso” ma adesso vi seguo con molto piacere ed infinito interesse.Bravi! 🙂
bella molto bella, io l’ho letta come un racconto…. e viene voglia di continuare a stare dentro la storia, così come Chiara ce la racconta. Bravissima
In effetti la storia continua.
Perché Davis, con i soldi dell’ultima, sfortunata esibizione, riuscì finalmente a imbarcarsi, desideroso di lasciarsi alle spalle ogni traccia del passato. Solo da una cosa non riuscì a separarsi: il suo immancabile disco, simbolo ormai di fallimento e disillusione.
La nave giunse lungo le coste sudafricane, e qualcuno portò sulla terraferma una copia dell’album. Per uno strano scherzo del destino, in breve tempo “Inside Llewyn Davis” divenne un vero e proprio culto. Tanto che qualche anno dopo, quando in modo altrettanto rocambolesco arrivò “Cold Fact”, a Cape Town e dintorni non avevano dubbi: Sixto Rodriguez è il nuovo Llewyn Davis! Che duo eccezionale potrebbero formare, chissà che qualcuno non riesca a metterli in contatto…
Negli States, intanto, all’apice della carriera Bob Dylan dedicherà un pezzo a quello strambo personaggio con cui divise il palco all’epoca degli avventurosi inizi al Village. Quel tipo dall’aria malinconica, perennemente in cerca di guai, sballottato qua e e là dagli eventi, senza una direzione verso casa, come un perfetto sconosciuto, come una pietra che rotola.