Mi è capitato di vedere Intelligenza Artificiale, in questi giorni in cui i presagi si stanno facendo sempre più contro-utopici. Anticipo subito la fine, per liberarmi: mi è piaciuto perché è un film che ricerca ossessivamente e morbosamente il senso di un’origine, il recupero di una perdita. E lo fa malgrado la maestria di Spielberg. Nonostante il suo perenne e stucchevole bisogno di riconciliazione. Perché invece ci commuove. E forse lo stesso Steven ammetterebbe che il film, a un certo momento, gli sia sfuggito di mano. E che il suo sogno di un’antropologia individualista, così come quello che sembra il trauma, e non solo suo, di una madre inaccessibile e depressa, in questa opera riescano a esprimere, ma in un modo non riconciliato, il trauma ed il senso (ciò che è inimmaginabile sembra infatti essere, per l’autore, un non senso, una noia non giustificata dal vivere la stessa esperienza della temporalità, una non origine così come una origine senza amore e senza legame).

Non bisogna essere d’accordo con lui, con la sua visione –perché di visione in questo film si tratta. Io non sono d’accordo. Ma il coraggio e l’ambizione di portare alle estreme conseguenze il sogno antropologico del plasmare un’anima al robot, così come quello disperato di attribuire ancora credito al sogno o meglio all’illusione metafisica di una fagocitante origine e di una altrettanta disperante, e certo anche arrogante, ‘umanità in generale’ (pensiamo anzitutto all’animale come simile all’umano o all’animale come metafora, prima ancora che al simulacro robot), il tentativo estremo e insieme ambizioso -vitalisticamente tracotante, si sarebbe detto in tempi meno alienati- ebbene lascia il segno.

Un segno, e di nuovo non bisogna essere d’accordo con Spielberg, che trova ancora una volta il desiderio e il bisogno metafisico di una essenza universale –gli alieni che, oltre al nostro linguaggio, comprendono anche i nostri sentimenti e come nella più bella delle fiabe, ci restituiscono non una distopia ma, ahinoi, perché ci caschiamo sempre, un lieto fine. Non sono d’accordo con questa visione essenzialista e progettualmente umanistica, che vede un soggetto adulto (e maschio, bianco e ricco) dotato di razionalità proiettare il proprio bisogno di controllo e di dominio su un oggetto-robot, in cui, cascasse il mondo, sublimare altresì la propria paura di morire -nell’eternità di una macchina-come-me-che-però-non-muore. O forse non è neanche precisamente questo. Perché come anche in molte suggestioni di AI, il progetto umano è finito ad Auschwitz, e nessun soggetto così unico e speciale –leitmotiv del film- è stato capace di evitare questa tragedia. Il film, tornando all’oggi, non parla di come il rischio mai tanto attuale sia forse più quello di una perdita di umanità a bassa intensità, di un lento e distratto dimenticarsi, cioè, dentro un’oggettivazione che ci stanno programmando addosso, a partire dai corpi. Ma in fondo mi è piaciuto perché sì, è un film imperfetto, contraddittorio e smisurato, un film che si prende dei rischi (non è piaciuto praticamente a nessuno) e che non teme di confrontarsi con il tragico (seppure nella versione di una fiaba pop). Una delle ultime sequenza è struggente e insieme lieve: dopo aver subito la crudele dimostrazione della propria spersonalizzazione e aver sentito l’annientamento della propria singolarità da parte del professore-scienziato/padre, David si getta dalla cima di un gratattacielo in rovina (New York non esiste più, vittima dell’Antropocene); mentre giace sul fondo marino il ragazzino viene circondato da un insieme di pesci iridescenti che, dappresso, lo guidano lungo il viaggio di ritorno.

Basta pensarsi come un pesce andando indietro fino all’acqua da cui siamo usciti e la morte smette di preoccupare, scrive Antonella Anedda in Geografie (Garzanti, 2021).

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